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Enrico Lucherini
Se Federico Fellini divenne un aggettivo, Enrico Lucherini la fece più grossa: si fece sostantivo. Secondo la Treccani, con “lucherinata” si intende la “trovata tipica di Enrico Lucherini, responsabile di un ufficio stampa cinematografico”. Ma è una definizione riduttiva, che quasi minimizza il senso di questa iperbole creata a fini promozionali. D’altronde l’unico che poteva raccontare cosa fosse davvero una lucherinata era Lucherini stesso, morto ieri, lunedì 28 luglio, a pochi giorni dai suoi 93 anni (li avrebbe compiuti il prossimo 8 agosto).
E lo spiegava con degli esempi, pezzi di un’aneddotica pronta a farsi mitologia grazie alla sontuosa, avventurosa, leggerissima capacità salottiera del più celebre, temuto, rispettato, amato dei press agent. Che è stato anche uno dei grandi testimoni – e narratori – della storia orale del cinema italiano, non fosse altro perché, avendo inventato un mestiere che non c’era, ci offriva un punto di vista assolutamente unico, da amabile confidente pettegolo sempre devoto alla causa dei suoi assistiti attraverso le attività dello Studio Lucherini-Rossetti-Spinola (con Matteo Spinola, suo storico socio morto nel 2006, presentò perfino un programma di cronaca mondana per TMC, C’era questo, c’era quello) e poi con lo Studio Lucherini-Pignatelli (Gianluca, allievo e sodale).
Difficile che qualche protagonista delle lucherinate parlasse male del demiurgo, il deus ex machina che ha insegnato l’arte della promozione a noi provinciali di quella periferia dell’impero che per qualche tempo – anche per merito di Lucherini – è stata il centro del mondo. Nei racconti leggendari del press agent c’erano sempre la consapevolezza che ogni dramma prima o poi finisce in commedia, la tendenza al ridimensionamento tipica del carattere romano (era nato nella Capitale nel 1932, figlio di medico e allievo dei Gesuiti), la vocazione allo sberleffo nel ribattezzare divette un ascesa o film da affondare.
Perché tutto sommato le lucherinate erano delle spettacolari bugie, clamorose messinscene allestite per una copertina in più, un servizio esclusivo, una foto iconica, un argomento da salotto. Il repertorio è notissimo, sempre rivendicato da questo allegro istrione che più passava il tempo e più non faceva mistero di annoiarsi terribilmente, dichiarando senza filtri la nostalgia per quel cinema perduto che poteva essere anche un gioco.
Solo un giocoso (e un giocatore) poteva costruire un’epica per rafforzare lo statuto di un kolossal come Il gattopardo, dai fiori freschi inviati ogni giorno da Sanremo alla Sicilia alle mille candele vere accese sui grandi lampadari per volere del maniacale Luchino Visconti. Ovviamente tutte fandonie, ma Lucherini capì prima degli altri la legge del west: se la verità incontra la leggenda, si stampi la leggenda. Ciò che conta è che la verità sia verosimile. E, sì, se si poteva credere a un Visconti ossessionato dai dettagli, tanto valeva allora raccattare un ghepardo da un circo di passaggio a Cannes per fargli interpretare il gattopardo sulla Croisette.


Elio Germano, Enrico Lucherini, Giovanna Mezzogiorno al Bif&st 2016
(Pietro Coccia)A istruirlo davvero fu Sophia Loren, mentore, amica, cliente, complice: sotto l’egida di Carlo Ponti, Lucherini e Loren hanno costruito un personaggio che non ha eguali nel cinema (nostro e non solo), una figura capace di incarnare il sesso e la maternità, il desiderio e il sacrificio, l’opulenza e la miseria, l’Italia stessa e la storia del mondo. È seguendo la nostra massima diva che Lucherini impara un mestiere che non c’era, dando vita a un memorabile catalogo di fregnacce (era lui stesso a chiamarle così) per i film più diversi, da Teorema a Fantozzi, da Metti, una sera a cena a King Kong, fino a Sotto il vestito niente e Baària.
E quindi dallo sfondamento della vetrata d’ingresso del Palais a Cannes per sottolineare l’hype (parola che l’avrebbe fatto rabbrividire) per La ciociara al rogo dei capelli (anzi: della parrucca) di Sandra Milo pur di dare visibilità al
faticoso Vanina Vanini (che qualcuno, a Venezia, ribattezzò Canina Canini, nome passato alla storia ma la cui paternità Lucherini rifiutava), dal finto annegamento di Agostina Belli per lanciare Sepolta viva al ballo di Florinda Bolkan con Richard Burton per fare ingelosire Elizabeth Taylor fino alla finta malattia confessata in un’intervista televisiva dal tormentato Laurent Terzieff.Oppure cavalcando verità nascoste in piena vista, talmente imbarazzanti da non poter essere ignorate, che fosse il clamoroso spogliarello di Aiché Nanà (fu lui a ”salvare” il prezioso rullino con le foto) o soprattutto la guerra tra Gina Lollobrigida e Francesca Dellera nel remake de La romana (un’esperienza che meriterebbe tomi di psicanalisi).
Era lui stesso a dire che ne aveva fatte di tutti i colori (da cui il titolo del doc a lui dedicato da Marco Spagnoli), un ragazzo della buona borghesia che capì presto di non essere un attore talentuoso (si definiva “cane”: Rossella Falk, la diva del teatro del dopoguerra che lo portava in tournée con la Compagnia dei Giovani, gli suggerì di lasciar perdere e diventare addetto stampa) e che ha passato la vita a difendere, lanciare, promuovere, sostenere il nostro fragile star system. Diventando un artista del suo mestiere, muovendosi spericolato tra imprenditoria e situazionismo, con una regola aurea: tutto purché se ne parli.