Il cinema civile esiste ancora e ha la forma di Żeby nie było śladów (Leave No Traces), che del nobile filone è esempio sì tradizionale ma incredibilmente solido, capace di tenere alta l’attenzione dello spettatore per due ore e quaranta grazie a una narrazione serrata e coinvolgente.

All’opera seconda, Jan P. Matuszyński, nato nel 1984, ricostruisce (a partire dal libro di Cezary Łazarewicz) un delitto avvenuto l’anno prima della sua nascita e caduto un po’ nell’oblio della memoria collettiva: quello di Grzegorz Przemyk, studente liceale nonché figlio di una poetessa d’opposizione, arrestato per futili motivi e picchiato a morte dalla milizia nella Polonia comunista.

“È come se un camion fosse passato sul suo corpo più volte” ratifica l’autopsia, certificando la macellazione degli organi interni. Alla mattanza ha assistito l’amico Jurek, che, con il sostegno degli attivisti di Solidarność, decide di testimoniare, diventando così il principale nemico del regime e andando ai ferri corti con la famiglia.

“Senza lasciare tracce” è la raccomandazione che si fanno i miliziani durante la violenza: per evitare che i segni delle percosse restino visibili, bisogna prendere a calci la pancia. La violenza è lasciata a latere dell’immagine: la guardiamo attraverso gli occhi di Jurek ma anche, in antitesi, con quelli feroci dei miliziani indifferenti al crimine, assuefatti al massacro, protetti dal sistema. Di quell’atto criminale e disumano vediamo, coi nostri occhi, le conseguenze: la lancinante agonia di Grzegorz, la devastazione emotiva della madre, il disfacimento della famiglia di Jurek.

Con una fotografia che per grana e colori sembra un reperto di quel passato, Żeby nie było śladów è un film universale, parlato in una lingua idealmente comprensibile a tutte le latitudini, che sa mettere insieme l'energia e l’inquietudine del grande spettacolo d’autore europeo (Costa-Gavras, Francesco Rosi) e la capacità di dare densità popolare al discorso politico tipica della New Hollywood (Alan J. Pakula in testa).

Credits: ukasz Bk

Se il caso è emblematico (insabbiato dal sistema, recuperato dopo il crollo, caduto in prescrizione senza mai ottenere giustizia), la denuncia è generale: la tragedia senza giustizia è una chiave per capire la fragilità e al contempo la potenza di un regime in crisi, che si tutela passando sopra un cadavere reso ancor più eccellente proprio per l’accumulo di errori politici, come fa notare l’anziano procuratore fedele alla linea fintantoché può essere “assecondata”.

Magnifica la galleria di comprimari (su tutte ricordiamo l’odiosa procuratrice di regime), magnetico il protagonista Tomasz Ziętek nel dare corpo a un idealismo che trascende l’adesione partitica perché umanista, d’impatto la presenza di Sandra Korzeniak nel ruolo di una madre in lutto che combatte mediante la poesia. Difficile trovare qualche sbavatura in questo film sì d’impianto classico ma inappuntabile nel suo genere.