Film d’apertura del XVIII Ravenna Nightmare Film Fest, Woman of the Photographs costituisce un’ulteriore riflessione sullo statuto delle immagini e sulla sua manipolazione, all’interno di un film che ha la densità artefatta di un incubo tra melodramma raggelato e horror romantico. Lo fa dentro una storia che ragiona sulla corrispondenza tra realtà irriproducibile e riproducibilità tecnica, rappresentazione e illusione.

La fotografia come arte e professione è forse un espediente un po’ facile, e certo Takeshi Kushida arriva dopo autori che sul tema hanno edificato capolavori (citiamo Michelangelo Antonioni per obbligo morale). Il suo fotografo lavora sull’immagine, modificandola con tutti quegli strumenti tecnologici a disposizione per piegare la realtà al nostro desiderio. Correzioni sulle forme dei corpi impressi dall’occhio che uccide per immaginarsi diversi almeno nel ritratto che resta.

Il mélo incombe quando il fotografo, misogino e apparentemente imperturbabile e anaffettivo, incontra una bellissima modella con un vistosa cicatrice sul petto: vorrebbe vedersi priva di quella ferita perenne e perciò chiede aiuto affinché il fotografo intervenga per produrre una sua versione rigenerata e senza difetti. E, una volta compiuto il lavoro, comincia a sentirsi progressivamente lacerata dalle due versioni di se stessa: Man mano che lei recupera la sua visione immacolata, riacquista followers sui social e si dissolve nella scomparsa di un’imperfezione tenuta nascosta agli occhi del mondo.

 

È chiaro che nell’orbita del genere Woman of the Photographs intende avviare un discorso teorico, rischiando in alcuni passaggi di farsi sopraffare dal pensiero e dalla rincorsa all’allegoria di una mantide che – va da sé – incarna la donna fatale. Per l’autore, all’opera seconda, il film sembra spesso uno strumento per innescare una meditazione sulle conseguenze della contraffazione della verità: non si limita a lavorare nelle pieghe dell’immagine ma anche sulla modulazione del suono, intonandosi sul ritmo compassato del laconico dialogare.

Non del tutto accessibile (qua e là verrebbe da dire quasi volontariamente), Woman of the Photographs può contare su alcuni momenti di sicuro impatto, su tutte le allucinazioni visive con il sangue che resta sulle mani e le stranianti sequenze danzanti sulle note del Lago dei Cigni, e però sembrano funzionare soprattutto nel loro essere frammenti da postare decontestualizzati su quei social bersaglio della polemica d’autore.