Maud (Francia), Charles (Kenya), Nirmala e Khendo (Nepal), Xavier (Ruanda) e Antonio (Brasile): è il giro del mondo delle disabilità secondo Pascal Plisson. Il doc come bussola transazionale, affratellante per radunare ed elevare giovanissime storie di resistenza nello svantaggio cronico, di vitalità che sboccia contro un destino impietoso.

Di continente in continente, di campo lungo in primissimo piano, Plisson abbassa la camera ad altezza di bambino e calcando il precedente, pluridecorato Vado a scuola, replica una storia corale, policentrica, intercontinentale, dal fondo morale trasparente, dall’intento edificante altrettanto palese.

Davanti alla cinepresa sfilano e si confessano protagonisti imberbi, sospesi tra l’infanzia e l’adolescenza, tra la Francia e l’Africa, tra il Brasile e il cuore dell’Asia. Raccontano una quotidianità che si misura con disabilità, menomazioni, privazioni, deficienze. Fisiche, cognitive, comportamentali, mentali. Eppure sembrano già adulti. Traboccano accettazione di sé, fiducia scalpitante e luminosa ostinazione, perfino rivalsa verso il domani. 

Sono ballerine, attrici, matematici, medici del futuro.

A fare da amalgama, la scuola: Plisson inquadra e ritorna ogni volta che può sui banchi scolastici. Scalcinati o tarlati, lustri o nuovissimi. Sempre essenziali. Decisivi. Insostituibili. L’intento è presto detto: l’istruzione come forma elementare e fondamentale di riscatto, di costruzione di sé malgrado le “distruzioni” della Natura. Oltre la scuola, poi, ecco la musica e la danza: ovvero la massima, festosa libertà di movimento nonostante la menomazione corporea.

Tra realismo empatico e ossatura da romanzo di formazione, il doc non giudica, ascolta, compatisce ed eleva in senso esemplare (la scrittura a sei mani è dello stesso Pascal con Yann Brion, Eddy Vingataramin).

Eppure, nel trasvolare di vicenda in vicenda, di continente in continente, di bambino in bambina, abbonda la verbosità, si sfiducia l’immagine filmica, si ristagna nella facile commozione, si sfuma il contesto, si annacqua il dolore: negli scoppi di fiducia, nell’esplosioni di felicità che contagiano padri, madri e figli, spunta il sospetto di una semplificazione univoca, di una rimozione artefatta, perfino, di rado, anti-realistica dello sprofondo.

A voler essere sferzanti (e forse esagerati), si potrebbe parlare di un doc che si incammina, convinto, sulla strada del realismo, ma finisce presto per remare contro sé stesso, mostrandosi univoco nell’evocare e subito dopo seppellire il dolore, il tormento, la dannazione. Che c’è, pure e soprattutto in giovanissima età. Insomma, Plisson cerca l’oggettività e trova la deformazione, cerca la verità e trova la manipolazione affettiva.

Di più: di storia in storia s’impone la ripetitività, l’iterazione dell’identico, la spinta a includere “il diverso” nel conforme, nell’accettabile, l’individuo nella comunità (o massa). 

Rimane, così, sui titoli di coda, l’invito alla tenerezza, alla sospensione del giudizio, l’abbaglio d’una color palette luminosissima, come il voluto sospetto di una schematizzazione studiata ad hoc per il pubblico di studenti da trascinare in sala dal 3 dicembre, in occasione della “Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità”.