Nell’era del true crime come modello fondamentale per confrontarsi con la realtà e le sue ombre, resta comunque un mistero perché la fiction (cinema e serialità) sia rimasta indietro rispetto ad altri strumenti come i podcast (le narrazioni di Veleno, Demoni urbani, Polvere) e quell’area che genericamente possiamo chiamare “non fiction”.

Eppure in passato, in un contesto storico e industriale del tutto differente, il grande schermo sapeva recepire all’istante i casi di nera, con risultati certamente altalenanti ma interessanti per come restituivano e ripensavano qualcosa di noto e ampiamente digerito (qualche esempio: Svegliati e uccidi – Lutring, Il mostro di Firenze, Mamma Ebe).

Qualcosa si sta muovendo con l’allargamento dei player in campo (i tentativi Alfredino di Sky Circeo su Paramount+, l’imminente Avetrana per Disney+) e i grandi autori che giocano in un altro campionato (in fondo Esterno notte non è il capolavoro del nostro possibile true crime?), ma per il momento è l’ambito del documentario a offrirci le occasioni migliori per dialogare con quella cronaca nera che ormai è storia d’Italia.

Non fanno eccezione le esplosive quattro puntate di Wanna, con cui Netflix cerca di replicare l’imprevisto successo di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la straordinaria docuserie sulla comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli, vero e proprio spartiacque nella concezione popolare del genere.

La differenza rispetto ad altri prodotti è che il pubblico, di Wanna Marchi e Stefania Nobile, sa moltissimo, forse tutto. Perché – e qui c’è una delle chiavi di lettura più interessanti – è come se, parafrasando il motto dannunziano, le due abbiano fatto delle proprie vite non delle opere d’arte, ma delle trasmissioni televisive. Allora è l’immaginario del piccolo schermo – di cui la stessa si è autoproclamata regina – a costituire il modo migliore per accedere al loro mondo.

Se il modulo scelto è quello dell’intervista – in uno spazio cupo come d’ordinanza e che somiglia a uno showroom, cioè uno studio – che è la quintessenza del talk show, il racconto procede per evocazioni che si accostano alle ere televisive.

Dal passato in bianco e nero che rievoca i sacrifici e le limitazioni si passa ai colori delle emittenti private, dove la liberazione delle frequenze fa rima con quella dei costumi, fino ad arrivare alle immagini incerte delle reti locali, le riprese dal vero dei processi, i videomessaggi inviati ai programmi generalisti.

Creata da Alessandro Garramone, Wanna ricostruisce l’ascesa vertiginosa e la rovinosa caduta della più grande imbonitrice del dopoguerra: dalla vita insoddisfacente con un marito fedifrago e violento – e, a sottolineare la connivenza tra vita e televisione, lui si vendicherà tramite I fatti vostri – alla rivincita come truccatrice di cadaveri all’obitorio di Bologna che le offre l’occasione della vita (la mamma di una defunta la ringrazia con un milione e mezzo).

Il romanzo d’appendice vira verso la parabola della self made woman tra Scorsese e Vanzina grazie alla vendita di prodotti dimagranti (lo scioglipancia, talmente iconico da meritare il titolo del primo episodio). E qui finiamo in una puntata di Dynasty, con madre e figlia completamente debitrici a quell’estetica (le acconciature cotonate, il vestiario appariscente, gli arredi lussureggianti), ma anche in un’emanazione trash di Sanremo all’altezza del Karaoke (la canzone D’accordo!) nonché un innesto della Piovra (l’incredibile filone sulla camorra) e di una telenovela (il ruolo del misterioso marchese Attilio Capra de Carré), con l’annuncio delle logiche del reality (il servizio per Novella 2000, simbolico perché passano dalla vendita di qualcosa alla vendita di se stesse).

Wanna racconta un mondo in cui convivono l’emancipazione dal patriarcato e il diritto al matriarcato, l’ignoranza subita e quella sfruttata, il casale in campagna e l’appartamento nel grattacielo, la tecnologia dei database e la magia delle tribù, la promessa del sogno e la minaccia dell’incubo, i miliardi goduti e le privazioni del carcere, stare dentro la televisione per non starci di fronte, il business delle illusioni in un Paese disperatamente bisognoso d'attenzioni e il desiderio di non essere come tutte quelle beghine, vivere alla grande per non morire dimenticate.

Una storia perfettamente italiana, che cavalca la ferocia, la perfidia, la cupidigia di due donne mai pentite, rapaci e violente, sospese tra la rabbia verso un mondo che ha voltato le spalle e il delirio di onnipotenza tipico di chi è caduto dopo essere stato in cima, consapevoli del proprio statuto e parimenti coscienti dell’operazione della quale sono protagoniste.

Un punto di forza, infatti, sta anche nel tentativo delle due di rendersi complici degli autori, accettando la loro lettura (il rapporto morboso e malato tra madre e figlia), esercitando quel potere d’influenza con cui si sono imposte nel mercato e nella società, rivendicando operati inqualificabili (la morale: chi crede alle panzane è un idiota, quindi se si rovina non deve lamentarsi), servendosi di una teatralità spudorata che le rende icone camp di un’epoca finita ma anche macchiette perverse di una criminalità subdola. Vorrebbero piegare l'ambiguità a loro favore, ma ascoltare ciò che dicono - e ridere per qualche battuta geniale - non vuol dire mettere in dubbio che siano sedute dalla parte del torto.