Ispirato al celebre monologo di Jean Cocteau, già adattato per il cinema da Roberto Rossellini nell'episodio omonimo del film L'amore (1948), protagonista Anna Magnani, Voce umana di Edoardo Ponti è, prima ancora che una voce, il corpo, il volto di Sophia Loren. Sofia è qui una donna ormai avanti negli anni, chiusa nel suo bell'appartamento d'epoca, che assiste alla fine del suo amore. Non rimane spazio se non per una lunga telefonata d'addio all'uomo (la cui voce non ascoltiamo mai, presenza nell'assenza), nella quale Sofia mette a nudo se stessa, il proprio bisogno d'amare come linfa dell'esistenza e al contempo la dignità della propria sofferenza. Sullo sfondo, la Napoli dell'immediato dopoguerra: carnale, abisso di vita indomabile, struggente e feroce come il dialetto della sua gente. La presenza di Erri De Luca, che ha collaborato alla stesura dei dialoghi in dialetto napoletano è sintomatica del valore programmatico dell'opera. La cura del dettaglio scenografico, la fotografia densa, la calibrata profondità di campo e di fuoco sono altri segnali. Con questo suo mediometraggio, Ponti agisce su di un delicato equilibrio intertestuale, intessendo un dialogo sottile, che ha il sapore agrodolce di un'elegia, con interlocutori ben selezionati: in primo luogo, la pièce originaria di Cocteau e, in un secondo momento, la trasposizione di Rossellini (con tutto il suo corollario: l'estetica del neorealismo, il “divismo” disperato della Magnani) per giungere, infine, alla tradizione della commedia all'italiana e soprattutto a quella tradizione drammatica, in senso lato, squisitamente partenopea, che ha dato tanto al cinema italiano.
Nei titoli di coda compare la dedica “per mamma”, eppure una volta terminata la visione di Voce umana è forte l'impressione che questo prezioso frammento di cinematografia sia in realtà una dedica allargata, e un addio commosso, a un mondo e a un modo di fare cinema, vale a dire di raccontare la realtà, che non esiste più. E poi c'è Sofia: il corpo, il viso, la voce appunto.