Non solo Riso Amaro. Giuseppe, per tutti Beppe De Santis secondo Steve Della Casa è stato (in disordine): pioniere del neorealismo, sceneggiatore sociologo, regista ideologo, direttore di attori e attrici impareggiabile. E poi marxista (clandestino) sotto il fascismo, cuore pulsante del quindicinale Cinema, militante a guerra conclusa.

Populista per certa critica, sensualista per i moralisti, via terza a De Sica e Rossellini, oggi si lascia riscoprire come “primo regista proto-femminista della Storia” (dalla Mangano mondariso fino a Yvonne Sanson), osteggiato e ridotto al silenzio forzato – leggasi insegnamento al Centro Sperimentale di Cinematografia - dagli strali (sempre dei) critici, ma soprattutto dalla pavidità dei produttori.

Prima di ogni cosa, però, De Santis fu umorologo, antropologo, registratore formidabile di usi, atteggiamenti, abitudini, vizi del microcosmo contadino della sua Fondi ciociara – Caccia tragica, Non c’è pace tra gli ulivi, ma anche Giorni d’amore – , a cui sentirà sempre di appartenere. Nei suoi film, però, non mancò mai il senso spettacoloso della narrazione di Ford e Kurosawa a braccetto con il rigore stilistico del cinema muto sovietico.

Dopo Giuseppe De Santis del compagno e collega Carlo Lizzani (altro nobile decaduto del nostro cinema), è questo il profilo che emerge nel pregevole doc scritto e diretto da Steve Della Casa: Un’altra Italia era possibile, il cinema di Beppe De Santis, in anteprima in laguna a Venezia Classici.

Droni aerei sull’Agro Pontino, testimonianze sdilinquite e ammirate di colleghi, critici, attori, amici – da Mario Martone a Jean Gili, da Scola a Monicelli, la platea di desantisiani è davvero folta -, spezzoni di film del Nostro, Della Casa ricompone il puzzle di un cantore di un’Italia spesso al femminile, speranzosa e popolana, innamorato delle masse contadine ma anche urbane (Roma, ore 11) che chiedono invano, finita la guerra, la fine degli stenti al neocapitalismo rampante.

Ritratto a tutto tondo, sentito e ponderato, testamentario ma non pedante, tra il privato e il pubblico, tra Marx e Ford, dovizioso nel ricucire il filo della biografia artistica percorrendo le undici regie di De Santis.

Due i centri di gravità: il peso capitale di De Santis sul neorealismo, cemento indispensabile per edificare non solo il cinema, ma l’Italia del dopoguerra, e l’amarezza personale per il boicottaggio subito: “Dovrei essere ricordato più per i film che non ho fatto che per quelli che ho fatto” sibilò a Venezia ricevendo il Leone d’Oro alla Carriera nel 1995 da Gillo Pontecorvo.

Nel mezzo ecco sodalizi artistici (Elio Petri e Silvana Mangano), amori (Gordana Miletic, conosciuta sul set di La strada lunga un anno), affetti, amici e allievi riconoscenti (Iaia Forte, Roberto De Francesco e Paolo Virzì).

Della Casa continua il suo viaggio al termine del cinema italiano (Siamo in un film di Alberto Sordi?, ma anche Flaiano il meglio è passato) per ridare luce luce a geni (e) negletti. Il rimpianto critico, diciamo anche civile, per un mondo perduto, in fondo come filo rosso anche di questo doc.

Beppe De Santis, ovvero l’etica lavorativa al servizio delle immagini, la coerenza ideale al servizio della storia e dei personaggi.

Un’altra Italia, un altro cinema era possibile. E non lo è stato.