Quando – spesso con un provincialismo un tanto al chilo, spesso per sconfortata consapevolezza – diciamo che un certo tipo di film oggi in Italia è impossibile, pensiamo anche a film come Una intima convinzione. Non è un capolavoro, non è nemmeno trascurabile, ma non è questo il punto. Non è la qualità – qui di buon livello, per inciso – a far la differenza, quanto la scelta di un tema che è strutturale e non in funzione della narrazione.

Al centro della storia, infatti, troviamo qualcosa di raro nel nostro cinema: il dubbio. In una società come quella italiana intrappolata nel manicheismo, vittima di assolutismi, di solito allergica alla riflessione anche scomoda, il dubbio pare essere diventato se non una bestemmia quantomeno la testimonianza di un pensiero non all’altezza di quest’epoca di apparenti certezze.

La cosa che rende Una intima convinzione un prodotto oltreché pregevole perfino esotico rispetto ai nostri lidi è la naturalezza con cui prende possesso del genere procedural senza che “il tema” sia unica colonna portante.

In realtà noi avremmo pure una tradizione di “film in tribunale” – usiamo un’espressione meno tecnica – a cui guardare con orgoglio. Parliamo di quei film a cavallo tra contestazione e anni di piombo, con l’aria del tempo contaminata da una paranoia spesso messa in scena attraverso il filtro dell’allegoria, la sfiducia nelle istituzioni e la solitudine del cittadino onesto quali elementi fondamentali di teoremi capaci di farsi intrattenimento. Di fronte a Una intima convinzione viene in mente, per esempio, Il bene e il male di Eriprando Visconti: un esempio per tutti, solo per dire che, sì, noi cose così le sapevamo fare. E bene.

All’opera prima, Antoine Rimbaut dimostra che quello francese, al netto di tutto, è il cinema più disponibile a recepire generi diversi, caratterizzandoli di una cifra che per costituzione francese. Il disegno di personaggi che non sono funzioni ma nervi scoperti, la classe di interpreti eccellenti in grado di restituire titubanze e dolori, un’adesione al contesto sociale che non è pretestuosa ma intimamente connessa alla storia.

La storia è quella del caso Viguier, un fatto di cronaca di vent’anni fa – se ne fa menzione esplicitamente, prendendo le distanze dal period drama – che vide coinvolto Jacques Viguier, un professore di diritto accusato della morte della moglie Suzanne in seguito alle rivelazioni dell’amante della donna. Il corpo non stato mai ritrovato. Grazie all’ostinazione di Nora (Marina Foïs), convinta dell’innocenza dell’uomo, e a un avvocato di grido (Olivier Gourmet), il processo d’appello potrebbe essere l’occasione per ribaltare quella che appare come una verità inattaccabile.

È chiaro che a Rimbaut interessi soprattutto la possibilità di raccontare un processo noto alla maggior parte dei francesi prendendosi la libertà di rielaborarne lo sviluppo, finendo così per appassionare perfino quegli spettatori che ben conoscono la vicenda. Dalla suggestione della cinefilia dell’imputato Viguier (Laurent Lucas: dirà in tutto venti parole, straordinario per misura), Rimbaut invoca Hitchcock: lo cita in maniera esplicita (Il ladro, La signora scompare) e tratta l’accusato seguendo la lezione del maestro.

A partire dal dubbio imposto da Nora – una paladina che da par suo è fermamente convinta di combattere in nome di un principio che all’inizio sembra appartenere solo a lei – costruisce un percorso verso la verità.

E nel titolo c’è la chiave di tutto: è una formula prevista dalla procedura inquisitoria francese che si riferisce ai “sentimenti”. Cioè: i giurati possono raggiungere la verità con i mezzi che credono, secondo ciò che impone loro la coscienza. Essere convinti di qualcosa non implica essere dalla parte della ragione, ma se si tratta di un’esigenza intima è una lotta che vale la pena affrontare per ristabilire l’ordine delle cose.

Dal disordine delle omissioni, delle reticenze, dei punti di vista, il dubbio si pone quale modalità indispensabile per mettere in piedi un’inchiesta controcorrente, culminata come procedural impone dal momento dell’arringa, apice di un film di parola e di pensiero che, ça va sans dire, parla soprattutto di ossessioni. Quella di Nora, figura inventata e complessa di tormentata e vibrante giustiziera, ma anche (anzi, principalmente) quella di Rimbaut che, infine, ci rende evidente l’unico vero dilemma: che fine ha fatto Suzanne?