In Un mondo fragile, i corteros che si spaccano la schiena nella piantagioni di canna da zucchero -70 ore a settimana per 200 dollari al mese - non sanno che due terzi del prodotto finale della loro fatica finirà nelle nostre tavole e l’altro terzo, accidentalmente, per terra. Tutti loro hanno problemi seri ai polmoni causati dall’aria malsana che sono costretti a respirare.

Le piantagioni di canna da zucchero crescono sfigurando l’ambiente, provocando fenomeni di erosione e desertificazione, e tutto quello che ne consegue in termini di movimento di popoli, sradicamento identitario e conflitti. Acevedo ci fa vedere quel che noi occidentali non sappiamo vedere: che il succo di tutta la faccenda del benessere è merda e veleno per miliardi di uomini. Sa mostrare e comprendere. Ha background da documentarista e occhio da visionario.

Acevedo è un esordiente classe ’87, capace di trasformare questioni spinose del nostro tempo in quadri dall’eloquenza straordinaria (che sembrano ricreare le atmosfere dei pittori costumbristi alla Millet e la drammaticità chiaroscurale degli interni di Andrew Wyeth) e disinnescare il manicheismo socio/politico dietro l’angolo evocando una storia di fantasmi, una vicenda familiare interrotta, un masticare amaro di radici e di affetti perduti.

Cercando la poesia tra i corpi anneriti e innaturalmente invecchiati – gli attori, tutti non professionisti, provengono dalla Valle del Cauca – e il monito nel rantolo del morente, voce di un mondo in via di sparizione. Che torna per un’ora e mezza tra noi, né vivo né morto, come uno spettro esorcizzato dal fotogramma. Che qui non è l’unità minima del discorso, ma il tutto di un linguaggio deliberatamente anti-moderno, lento, che sta sulle cose, senza lasciarsi contaminare dalla finta forza di persuasione del montaggio, che tutto vorrebbe accorpare, connettere, unificare, in una parola: dominare.