In fondo è un evento. Frederick Wiseman, che se non è il più grande documentarista vivente è certamente il decano più rispettato e influente della categoria, già premiato con l’Oscar onorario e il Leone d’Oro alla carriera, debutta nella fiction. A 92 anni.

Tutto sommato, Wiseman non avrebbe più niente da dimostrare. Potrebbe continuare a raccontare l’America nei suoi fluviali e indispensabili documentari; e noi saremmo contenti di vederli. Eppure, complice la pandemia, ha deciso di cimentarsi con qualcosa di molto lontano dai suoi schemi. Apparentemente, perlomeno.

Un couple, con cui torna in Concorso a Venezia a cinque anni da Ex Libris sulla biblioteca pubblica di New York, racconta una storia d’amore. Una relazione, vissuta sotto lo stesso tetto e al contempo mediata, ripensata, rivissuta attraverso una costante e intensa attività diaristica. I coniugi in questione sono i Tolstoj, Leo e Sofia: trentasei anni di matrimonio per tredici figli, nove dei quali sopravvissero, molte liti e altrettante riconciliazioni, insofferenze pari alle gioie, tormenti quanto basta.

Un couple dà voce a Sofia, che naturalmente è sempre stata prevaricata dalla fama del marito, e al suo monologo che monta liberamente le pagine dei loro diari e le lettere che si scrivevano. Poco più di un’ora, una sola attrice in campo (Nathalie Boutefeu, anche cosceneggiatrice) e le parole al centro della scena, un’isola al largo delle coste della Bretagna e in particolare un giardino abitato da flora e fauna che diventano a loro volta coprotagonisti del film, giocando sul confronto tra l’evidenza della parola incarnata e l’invisibilità di una natura che sembra commentare a suo modo.

Girato in ventitré giorni, Un couple trova nella sua dimensione panica – e nella conflittualità con essa – la possibilità di smarcarsi dal pericolo del teatro in scatola. Un’operazione che Wiseman porta avanti adattando la fiction all’altezza del suo stile: la cifra documentaristica, sempre stata legata alla ricerca di una struttura drammatica, si ritrova anche qui a incrociare la capacità osservativa del reale con la necessità di raccontare una storia che non sia solo una restituzione didascalica.

Nei fatti anche Un couple è un’altra versione del documentario contemplativo di Wiseman, con la differenza – e il problema – che nel corso di 64 minuti il regista non sembra trovare quella tensione e quel ritmo che abitualmente rendono i suoi film tanto lunghi e stratificati quanto avvincenti e affascinanti.

E così la marriage story dei Tolstoj finisce per essere divorata dalla scelta (forte ma rischiosa) del dispositivo, con la voce di Sofia che concede qualche stoccata a effetto senza offrire troppi picchi emotivi né climax narrativi. Alla costruzione di un arco narrativo, infatti, Wiseman preferisce il primato della parola e della performance, prediligendo la camera fissa quando si tratta di concentrare l’attenzione su Boutefeu e un passo meno statico laddove cerca un dialogo con la natura circostante.

In quest’ottica non denuncia solo la volontà di una nuova comunione, dopo la reclusione forzata imposta dalla pandemia, ma anche il desiderio di ricercare nelle piante e negli animali una di quelle comunità affollate che Wiseman racconta calandosi nel loro quotidiano.

E non è soltanto commovente il fatto che, non potendo gettarsi nella mischia, abbia deciso di ridurre tutto a un solo corpo in scena, allontanandosi dai luoghi che più gli si adattano: nel periodo del Covid, trascorso in Francia, Wiseman ha perso la moglie dopo sessantasei anni di matrimonio. Che abbia scelto un soggetto del genere, al di là del risultato, ci sembra struggente.