E' difficile il cinema di Rithy Panh. Bisogna fare attenzione ai piccol dettagli, allo sfondo. Soffermarsi sulle sfumature, lasciarsi cullare dalla visione senza perdere di vista ciò che le immagini - dentro e fuori di esse - ci dicono. La storia nel quadro, la grande Storia all'ombra del quadro. Storia e quadro: antinomie di cui vive il suo cinema. Il paziente lavoro di ricostruzione delle vicende di un Paese - la natìa Cambogia - sublimato, quasi folgorato, dalla bellezza purovisibilista. Vita e finzione o, se si vuole, orrore e arte. Qui il regista cambogiano - francese d'adozione - partiva dalla tradizione letteraria, da un capolavoro di esotismo all'occidentale: quel Un barrage contre le Pacifique di Marguerite Duras già portato sul grande schermo da René clement nel '57. E'la storia del disfacimento di una famiglia di proprietari terrieri transalpini - madre, primogenito e figlia adolescente - nell'Indocina francese del 1920. Un melò sullo sfondo della degenerazione coloniale, dove era facile per il lettore/spettatore più disattento perdersi tra i capricci del cuore, i rovelli passionali, il contorto decor familiare. Panh raggela tutto. Ci costringe a guardare da lontano, tenendoci a distanza dai personaggi che pure pretendono attenzione (e anche Isabelle Huppert, nella consueta recita di donna disfatta, viene tenuta a bada), e fa implodere il racconto (la finzione) nella Storia (il reale) - nella lotta di un popolo per la propria dignità (calpestata da vecchi e nuovi usurpatori, avidi cinesi e francesi imperialisti, Panh non fa distinzioni) - e nella tribolata convivenza con una Natura maravigliosa e crudele, simbolo di una Terra (la Cambogia) aspra, difficile da addomesticare e rendere fertile. Se prima gli uomini non cambiano.