Tutto in un’estate!, d’accordo, perché non c’è stagione migliore nel produrre memoria destinata a farsi nostalgia e rimpianto, e ci dà l’orizzonte emotivo del film. Ma il cuore dell’opera prima della trentenne Louise Courvoisier batte nel titolo originale, Vingt Dieux, espressione traducibile con la nostrana “santo Cielo”, e ancor di più nella sua versione internazionale, Holy Cow, ovvero “porca vacca”. Che è un’imprecazione ormai buffa, perfino gentile, che somiglia ai personaggi di questo solare e rurale racconto di formazione.

E che somiglia al volto impunito del biondo Totone, un diciottenne spiantato che ammazza le giornate tra sagre e birre, baci rubati e scazzottate, chiamato improvvisamente alle responsabilità quando deve prendersi cura della sorellina di sette anni. Costretto a guadagnare qualcosa e trovandosi nella Giura, regione agricola non particolarmente frizzante, Totone decide di produrre il miglior formaggio Comté locale (la vacca, appunto, figura peraltro essenziale nella commedia francese) per partecipare a un concorso che mette in palio una medaglia d’oro e trentamila euro.

Courvoisier, anche sceneggiatrice con Théo Abadie, si lascia bagnare dal sole di un’estate come tante, leggendo la crisi della società rurale alla luce dello spirito volitivo del protagonista goffo e vivace e dalla sua innocente immaturità. Girato con non professionisti, Tutto in un’estate! si esalta nella ricerca di un’autenticità qua e là artefatta, nell’umorismo che permette di attenuare l’esotismo cartolinesco, nella tenerezza dovuta a un coming of age con un protagonista che sembra lontano dagli schemi borghesi eppure del tutto contiguo a uno spirito romanzesco quasi alla Mark Twain.

Tutto in un'estate!
Tutto in un'estate!

Tutto in un'estate!

Per Courvoisier – cresciuta proprio nella Giuria nella fattoria dei genitori un po’ fricchettoni e che in curriculum aveva solo il cortometraggio circense A mano a mano (premiato alla Cinéfondation a Cannes 2019) – il realismo è una faccenda che prescinde la cronaca e passa attraverso i ricordi d’infanzia, la conoscenza del panorama umano, la simpatia nei confronti di chi non ha potuto contare sui comfort di comunità maggiormente sviluppate.

Perciò il suo film sembra esplodere dalle vignette di un fumetto (la regista cita Les Pieds Nickelés come ispirazione, ma la preparazione del formaggio nel pentolone ha qualcosa di magico che non sarebbe dispiaciuto a Panoramix), aggiornando lo spirito di certe avventure disneyane del dopoguerra (i colori sono quelli, con la luminosa fotografia di Elio Balezeaux) e le parabole picaresche della letteratura per l’adolescenza, eleggendo il formato Scope a strumento indispensabile per dilatare gli spazi, esplorare la profondità dei volti, immaginare quel che la superficie suggerisce. Ed è decisiva la scelta del cast, in primis i mirabili Clément Faveau e Maiwene Barthelemy nel ruolo dell’interesse amoroso di Totone.

Un esordio promettente e antiretorico, premiato a Cannes 2024 con il Prix de la jeunesse de la section Un certain regard, con il Prix Jean-Vigo (assegnato a film “indipendenti nello spirito e originali nello stile”) e con il César e il Lumière per l’opera prima.