Sarebbe stata la settima volta a Cannes per la giapponese Naomi Kawase, da oltre un ventennio abbonata alla Croisette (vincitrice della Camera d’Or all’opera prima, poi cinque partecipazioni in concorso e una in Un Certain Regard). È andata com’è andata, ma, a testimonianza dell’amicizia che lega la regista e il festival, True Mothers fa il giro del mondo – e arriva anche alla Festa del Cinema di Roma – con il label voluto da Thierry Fremaux.

Partendo da un romanzo di Mizuki Tsujimura (tradotto a livello internazionale con il titolo Morning Comes), Kawase costruisce un’inchiesta sentimentale sulla maternità raccontata attraverso un’idea di montaggio che sembra voler mettere in dialogo la complessità letteraria della narrazione e l’ambizione del poema visivo. In perpetua ricerca di una catarsi che possa riverberarsi nel difficile equilibrio tra le due dimensioni, verso un tentativo di destrutturazione della linearità che collima con la confusione e il disorientamento.

Tra passato e presente, incrociando storie e personaggi, True Mothers inizia con un conflitto tra due madri: una è Satoko, la protagonista, l’altra resta fuori campo, una voce al telefono che pretende un risarcimento perché il figlio è stato spintonato dal bimbo di Satoko. È per certi versi una falsa partenza, perché è uno scontro i cui veri contraccolpi sulla vita della donna sono indiretti e laterali, una pista che funziona come apertura verso altro.

In una struttura che si sviluppa lungo sei anni, i cui capitoli si rincorrono per assonanze apparentemente libere, True Mothers segue essenzialmente tre direttrici: la storia di Satoko e suo marito che, scoperta la sterilità dell’uomo, adottano Asato, frutto della prima volta di una liceale; quella di Hikari, la madre naturale, innamoratasi di un compagno e rimasta incinta dopo un rapporto en plein air; e l’incontro, sei anni dopo l’adozione, tra le due donne, con la madre naturale che ricatta l’adottiva.

©2020 “Asa ga Kuru” FILM PARTNERS/ KINOSHITA GROUP, KUMIE
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Si sente il coinvolgimento della regista, si percepisce la tensione emotiva di chi ha la cognizione dell’adozione e sa entrare in connessione con la molteplicità del sentimento materno, ma si avverte un po’ troppo la costruzione teorica a discapito dell’impatto emotivo. Kawase segue l’idea di una maternità liquida, espressa attraverso più corpi (qui ce ne sono tre: la naturale, l’adottiva e la responsabile dell’associazione, che fa da tramite tra le due) che appartengono tutti alla natura.

Una visione panica che si interseca nel paesaggio urbano di una Tokyo dominata dalle disuguaglianze (i genitori adottivi abitano al trentesimo piano, segno di un’estrazione benestante; la casa della famiglia mamma naturale alloggia in una casa troppo piccola per contenere tutti i membri e ancora più piccola è quella condivisa dalla ragazza con la collega), con il mare che avvolge e immagini sovraesposte a determinare una fluidità sospesa tra tattile e cerebrale. Ecco, è in questa sospensione che sta il limite di True Mothers.