L’Intelligenza Artificiale è uno dei temi caldi del nostro tempo. I computer ci sostituiranno? Nel cinema e non solo, l’idea fa paura. È già nata la prima attrice non in carne ed ossa. La realtà supera la finzione, e il franchise di Tron si rivela molto attuale. L’originale del 1982 era stato innovativo: rappresentava un viaggio nel fantastico, ma la novità era l’entrare in un videogioco, essere parte di un universo fatto di codici e algoritmi.

Oggi è all’ordine del giorno. Per questo il terzo capitolo dell’epopea, Tron: Ares, fa l’opposto: esce dalla sua dimensione per popolare le nostre città. Si chiude un cerchio. E sorge anche una provocazione, che sembra richiamare Asimov: non siamo più in grando di distinguere l’umano dal sintetico. Non è solo una questione morale, ormai rappresenta l’attualità di tante professioni.

Tron: Ares di Joachim Rønning si propone quindi come un entertainment ad alto budget e su larga scala, visivamente esplosivo, ma è più un instant movie che una storia proiettata verso il futuro. La guerra è nel titolo, come nei telegiornali. Ares è la divinità greca che si lega alla violenza, nel film è un’arma micidiale, oltre a essere il protagonista. Il messaggio è di pace, si ripropone il rapporto tra creatore e macchina. È una lotta tra padri e figli, in un’ambientazione sospesa tra i nostri grattacieli e dimensioni al neon dove è di casa l’inferno. La musica elettronica la fa da padrona. Dai Daft Punk si arriva fino ai Nine Inch Nails, con una passione anche per i Depeche Mode.

Siamo sulla scia di Tron: Legacy, ma qui il colore dominante diventa il rosso e non più l’azzurro. Una grossa azienda pensa di poter dominare ogni tipo di tecnologia. Porta programmi umanoidi sulla Terra, vuole dar vita a super soldati che, se cadono in battaglia, si rigenerano con un’anima ancora più letale. Ma si possono davvero controllare? La risposta è ovvia. La belva si ribella al padrone e inizia a porsi delle domande, per dare un senso alle sue azioni.

Niente di nuovo purtroppo, in un’avventura che aveva un alto potenziale. A scontrarsi sono culture diverse alla ricerca dell’indipendenza. Ma per fare la rivoluzione, come insegna Paul Thomas Anderson, serve un film ribelle. Tron: Ares si muove su binari precostituiti, ricalca l’estetica del capitolo precedente e non ha il mordente di Tron. Si rivela un ibrido, sospeso tra presente e passato. L’azione è spesso al rallentatore, e l’incontro/scontro tra Jeff Bridges e Jared Leto non è tristemente al centro della narrazione. Per un franchise dallo spirito moderno serviva un’epopea in grado di uscire dai soliti stilemi, con la volontà di far evolvere il franchise a un livello successivo.