A volte basta una “piccola” idea per portare sullo schermo un grande tema. Jafar Panahi, regista iraniano dissidente, a cui il regime da tempo ha vietato di realizzare film e di lasciare il paese, lo dimostra anche questa volta con Three Faces.

L’idea è questa: una giovane aspirante attrice (Marziyeh Rezaei) filma il proprio suicidio con uno smartphone, supplicando per l’ennesima (?) volta la star iraniana Benhaz Jafari di prendere a cuore la sua situazione, di ragazza osteggiata dalla famiglia e dalla comunità locale nel poter perseguire il proprio sogno.

Benhaz Jafari, sconvolta, parte insieme al regista Jafar Panahi alla volta di quel villaggio remoto, per sincerarsi che quel video sia una messa in scena.

Dopo l’Orso d’Oro a Berlino per Taxi Teheran (2015) e il corto-documentario Où en êtes-vous Jafar Panahi?, il regista de Il cerchio e Oro rosso riflette sull’attuale condizione della donna, e del cinema, nell’Iran di oggi.

Lo fa partendo da un mistero, la cui risoluzione dovrà necessariamente passare per le contraddizioni di un paese andate a scovare nelle viscere delle sue più arcaiche convinzioni.

È lì, in quel remoto villaggio nel nordest dell’Iran, raggiunto dopo un lungo viaggio in auto (caratteristica, questa del road-movie nella sua declinazione più intimistica, tanto cara al cinema iraniano di alta esportazione, si pensi al compianto Kiarostami e allo stesso, già citato Taxi Teheran), che il reale “svelamento” di Three Faces si compie.

Tre volti, tre epoche differenti, e un paradosso: i tre volti sono quelli dell’attrice affermata, dell’attrice emergente e dell’attrice reietta, una donna che “faceva film” prima della Rivoluzione del ’79 e ora vive da reclusa in una casetta al di fuori del villaggio (non la vedremo mai).

Il paradosso è quello legato al villaggio stesso, ai suoi abitanti, alla famiglia della ragazza, per loro scomparsa da tre giorni: Panahi e Benhaz Jafari vengono accolti con estrema cortesia, con l’attrice omaggiata in ogni modo possibile.

Per quale motivo, allora, sarebbe un disonore per la giovane Marziyeh entrare al conservatorio e tentare di seguire quella stessa strada? E perché l’altra attrice, quella del passato, si tiene ai margini della comunità?

Panahi – che nel film si ritaglia nulla più che il ruolo dell’autista, accompagnatore, “traghettatore” – si inserisce in questa contraddizione, continuando a far sì che il racconto proceda su questa continua sospensione tra realtà e finzione, sospensione su cui sin dall’inizio (con la Jafari che sospetta sia tutto un suo inganno ripensando a quella volta che le parlò di uno script basato su un suicidio…) il regista ha costruito l’intera operazione.

E fa in modo che la centralità della donna abbia il sopravvento non solo per la risoluzione narrativa, ma anche nel lascito del film stesso sul nostro immaginario, restando al di qua e inquadrando al di là del parabrezza l’incedere delle due attrici su quella mulattiera, mentre si allontanano per sparire dietro a un tornante, con tre camion che procedono in senso opposto, in direzione del villaggio, trasportando enormi giovenche per farle accoppiare con i tori locali.

Essenziale. Importantissimo.