Uno dei simboli dell’epoca Reagan è stato il Tom Cruise di Top Gun, nel 1986. Il suo tenente Mitchell, conosciuto come Maverick, solcava i cieli con la spavalda abilità dei fuoriclasse, era un asso che univa genio e sregolatezza, sospeso tra le medaglie al valore e le note di demerito. Il film di Tony Scott portava il patriottismo a livelli stratosferici, unendo azione ed estetica da videoclip. Gli Stati Uniti ripartivano dalle loro forze militari, le celebravano. Bisognava dimenticare il Vietnam, tornare a essere vincenti. Così l’eroe dell’aviazione consacrava sé stesso al Paese, combattendo un nemico oscuro, senza volto. I piloti avversari avevano sempre le maschera, non si vedevano mai in faccia. Gli intenti propagandistici invece arrivavano fin troppo chiari, e il film diventò un cult mondiale. I punti di forza erano il ritmo travolgente, la colonna sonora scatenata (Take My Breath Away di Giorgio Moroder e Tom Whitlock si aggiudicò l’Oscar), il fascino classico dell’epopea, e la patinata storia d’amore con Kelly McGillis.

Trentasei anni dopo arriva il sequel: Top Gun: Maverick (prima a Cannes, poi in sala dal 25 maggio), con dietro la macchina da presa Joseph Kosinski. È un film che vive dell’originale, ne omaggia la struttura, lo spirito. Ma non siamo più negli anni Ottanta. Nella prima parte si respira un’atmosfera crepuscolare. Maverick è l’ultima bandiera di un decennio che non c’è più. È come un cowboy errante che insegue il mito della frontiera quando ormai è diventato storia. È rimasto solo, nel deserto, a testare prototipi lanciati a tutta velocità, con il governo che ormai vuole usare i comandi a distanza, eliminando l’essere umano.

 

Top Gun: Maverick

Maverick è una figura nostalgica, malinconica. Il trauma della perdita dell’amico Goose non lo ha mai abbandonato, i suoi compagni sono diventati generali, mentre lui è ancora un capitano, e al suo fianco non ha nessuno. L’America non riconosce i suoi paladini, proprio come insegna Clint Eastwood. Non a caso il franchise di Top Gun si è sempre concentrato sul rapporto tra padri e figli. In quello del 1986, Maverick sfidava ogni limite per essere migliore del genitore, anche lui una stella del settore, scomparso in circostanze top secret. Ma oltre alla famiglia, lo sguardo era proprio alla nazione guidata da Reagan.

Gli Stati Uniti erano sommersi dalle macerie del Watergate, dai disastri della politica estera, da una eterna Guerra Fredda che metteva a rischio le sorti del  pianeta. Tom Skerrit ammoniva: “Anche se non siamo in guerra, dobbiamo comportarci come se lo fossimo”. Sempre in prima linea. E così i figli. Maverick, come ogni americano orgoglioso della sua bandiera, emula le gesta di chi non c’è più, per non sentirsi perduto. Questo tema rimane anche nel secondo capitolo: i vessilli dei padri sventolano ancora.

Ma Top Gun: Maverick si aggiorna, si fa moderno, e ancora una volta consacra Tom Cruise. Se nel 1986 lo aveva portato nell’olimpo delle star, qui lo conferma uno dei corpi attoriali più longevi e resistenti del cinema d’azione. Con l’andare dei decenni il divo di Syracuse si dimostra sempre più atletico. È lo stuntman di sé stesso. Le sue sono interpretazioni molto fisiche, da missioni impossibili, di cui si sentono gli echi anche qui, in Top Gun: Maverick. A firmare la sceneggiatura c’è anche Christopher McQuarrie, il cineasta di Mission: Impossible – Rogue Nation e Mission: Impossible – Fallout. In più il regista Joseph Kosinski con Cruise ha già realizzato Oblivion. La squadra è quindi ben rodata per dar vita a una nuova impresa, che mira a coinvolgere più generazioni.

Che cos’è oggi Top Gun? Una leggenda, un eterno ritorno, a cui è rimasto legato anche Tony Scott. Nel 1990, sempre con Cruise, si era immerso nel mondo delle corse, della NASCAR, con Giorni di tuono, che si poteva in qualche modo considerare un remake di Top Gun, però su quattro ruote. Cruise nel film era un giovane talento, arrogante, dedito alle bravate, fino a quando iniziava a trionfare. Top Gun è quindi ormai un marchio di fabbrica: i tramonti, le luci al neon come se fossimo in Miami Vice.

La cifra stilistica è ben riconoscibile, ma Kosinski non vuole essere Scott. Ne riprende alcune sequenze, strizza l’occhio ai fan, poi decide di andare oltre. Vola sul fascino dell’incredibile, sceglie di sfrecciare sempre più in alto. Anche se la sua regia è un po’ più controllata, non può che puntare sugli effetti spettacolari già visti e conosciuti: i combattimenti, gli addestramenti al limite, le accelerazioni brutali che sfidano la forza di gravità. Alcuni personaggi avrebbero avuto bisogno di un maggior approfondimento, ma come sempre a rubare la scena è il Maverick del titolo. Inossidabile, determinato, pronto a tutto pur di centrare l’obiettivo.

Top Gun: Maverick non delude comunque gli amanti dell’originale, è un blockbuster testosteronico, con anche un passaggio di consegne al femminile. Kelly McGillis non è più la bella professoressa di astrofisica che faceva perdere la testa al protagonista nel 1986. Al suo posto arriva Jennifer Connelly, che ha una figlia e ha rilevato il bar vicino alla base. Resta dunque in piedi pure la vena sentimentale. Il popcorn movie è servito, con la motocicletta che corre verso l’orizzonte. E forse non finisce qui. Ci sarà un terzo Top Gun? Troppo presto per dirlo. Intanto l’entertainment in chiave hollywoodiana è andato di nuovo a segno. Questa volta la hit è di Lady Gaga, Hold My Hand. Tienimi la mano. Ieri come oggi, a chilometri di altezza, cercando di non perdere mai quota e raggiungere mete sempre più lontane.