Lo suggerisce già il titolo: il regista George Miller ha realizzato le sue Le mille (in questo caso tremila) e una notte. Presentato fuori concorso a Cannes, Three Thousand Years of Longing è un film stravagante, variopinto. A sultani, concubine opime, feroci guerrieri e principesse perdute, si aggiungono i tempi moderni, la riflessione sullo storytelling.

Miller si interroga su che cosa significhi oggi raccontare una storia. Si affida alla tradizione orale, mescola realtà e leggenda. Non a caso la sua protagonista, con il volto di Tilda Swinton, si chiama Alithea, dal greco Aletheia, che significa verità. A che cosa si può credere? Di sicuro non agli occhi, quelli ingannano. Miller rielabora i codici, le tradizioni ben consolidate che continuano a vivere attraverso il mito.

Si parte dal sogno, dal Genio della Lampada, interpretato da un enorme Idris Elba, che fa anche fatica a rimpicciolirsi. È lui il punto di frattura nell’esistenza di una donna solitaria, affermata nel suo lavoro. Forse il “Genio”, che per molti resta quello blu di Aladdin, non è mai stato affrontato in modo così intimista. In fondo è uno spirito fragile, condannato spesso dalla passione che ha avuto per chi lo ha evocato.

Three Thousand Years of Longing parla di attesa, incontro tra solitudini, desiderio. Mette in scena coscienze ormai sopite, che non vogliono più nulla. Alithea respinge i privilegi del Jinn al suo servizio. Non chiede più di quello che ha. È solo abituata a viaggiare, a spostarsi. È per questo che Miller rallenta i ritmi, e costruisce una vicenda quieta per i suoi standard. Nella prima parte siamo in una stanza d’albergo, ed è solo la memoria a portarci fuori. L’errore, il rimorso e la nostalgia sono emozioni potenti nel film. L’iniziale struttura a episodi può sembrare ripetitiva, ma serve a immergere lo spettatore in un universo ricco di sfumature, che presto vira su note romantiche.

C’è un’insolita tenerezza in Three Thousand Years of Longing. Il fantasy passa da toni rarefatti fino a sfiorare il grottesco. Miller si conferma un cineasta dalle molte anime, spesso ondivago. Qui abbandona la furia del franchise di Mad Max e le venature scanzonate di Happy Feet (per fortuna). Da un punto di vista concettuale, è più vicino al suo documentario 40,000 Years of Dreaming (White Fellas Dreaming: A Century of Australian Cinema), dove collegava presente e passato attraverso il grande schermo.

C’è una profonda malinconia in Three Thousand Years of Longing. Non è più tempo per i maghi, non si ha la volontà di abbracciare l’incantesimo. Le fiabe appassiscono, manca il calore umano. Imperfetto, a tratti sopra le righe, è un film di cuore, che disorienta, per poi avvicinarsi sempre più ai nostri stati d’animo.