Potremmo recuperare certi termini desueti, perfino arcaici, per parlare di questa roboante baracconata che è l’ennesimo opus dell’universo Marvel. Thor: Love and Thunder è un capriccio.

Si affida all’estro di un autore abbastanza scaltro da non abbandonarsi del tutto all’indole scatenata, all’intelligenza di un divo che vuole rivendicare per sé lo spazio della commedia all’interno del franchise, alla necessità di restituire all’istituto del cinecomic una componente di leggerezza e follia che evidentemente non può essere sviluppata altrove.

È il secondo Thor di Taika Waititi dopo la stravaganza di Ragnarok e l’obiettivo sembra essere lo stesso: divertire, intrattenere, essere la quota brillante in un sistema di film che corrisponde anche un sistema di generi (solo in questa stagione abbiamo visto il coming of age di Spider Man e la deriva horror di Doctor Strange).

Non manca la linea drammatica, il momento struggente che per quanto risulta annunciato non può chiederci lo stupore delle lacrime, però il corpaccione è comico, come ha capito bene Chris Hemsworth, attore che sa essere divo, sempre più imprevedibilmente carismatico: possente e buffo, vigoroso e maldestro, aitante e farsesco.

È proprio l’asse tra regista e interprete a garantire la coerenza di Thor: Love and Thunder, eccentrico e comunque organico al MCU, a sua volta in linea con l’altra avventura brillante del franchise (Guardiani della Galassia, qui con la formazione al completo). A loro si accoda la new entry Russell Crowe, che nei panni di Zeus appare una volta (solo una volta?). E qui emergono i problemi.

Se Hemsworth, che padroneggia completamente il personaggio (si vede anche nella nonchalance con cui indossa il costume e nella chimica con la ritrovata Natalie Portman), è arrivato a questa dimensione leggera e liberata di Thor alla quarta avventura da eroe titolare e all’ottava apparizione in totale, Crowe sembra uno di quei grandi istrioni del cinema classico che interpretano personaggi un po’ improbabili andando allegramente sopra le righe.

Crowe è la cartina di tornasole di un film che non a caso inizia con un apologo alla Mel Brooks e sceglie poi il metodo della follia per affrontare una storia in cui si ha costantemente a che fare con la morte.

Thor, infatti, deve scontrarsi con Gorr, detto il macellaio degli dei, un cattivo dall’aspetto mefistofelico che Christian Bale interpreta con consumato gigionismo, affidandosi al trucco, al mestiere, ai cromatismi elementari della fotografia, quasi consapevole della fragilità del motivo per cui questo personaggio ha deciso di vendicarsi.

Per carità, la macchina cammina (il fatto che si stia sotto le due ore è commovente: al montaggio finale sono saltati i pezzi con Jeff Goldblum, Peter Dinklage e Lena Headey), nonostante si possa muovere qualche appunto alla credibilità degli effetti speciali e sulla coerenza del montaggio, però nel complesso questo Love and Thunder è operazione strana, bizzarra, capricciosa. Somiglia alla scena in cui Thor offre da bere al suo martello: è una roba demenziale, sorridi all’idea, ti accorgi che si stanno divertendo più loro di te (mai un buon segno) e non capisci bene dove voglia andare a parare. Magari non lo sa nemmeno lui.