Reduce dall’orso d’Oro a Berlino 2017 con corpo e anima, la brava regista ungherese Ildikó Enyedi approda in Concorso a Cannes 74 con il suo primo film in lingua inglese, adattamento del romanzo (1942) del connazionale Milán Füst: The Story of My Wife.

Sinteticamente, il (melo)dramma esplora negli Anni Venti del secolo scorso con atmosfere mitteleuropee e alla bisogna mediterranee, se non levantine, l’unione tra uno statuario, capace ma friabile capitano di fregata olandese (Gijs Naber) e la sua irresistibile, fascinosa e destabilizzante sposa francese (Léa Seydoux). Tre ore di durata, che potevano essere ridotte senza menomazioni, ricostruzione storica precisa, ricca e sontuosa, l’obiettivo è sulla precarietà del matrimonio, in cui il dolo dell’una o la paranoia dell’altro proietta la silhouette nullafacente ma charmant del terzo incomodo (Louis Garrel): l’ama, non l’ama, e il soggetto chi è?

Febbricitante, quasi morto ma non a Venezia, incistato e ruminante, il registro è più Kammerspiel che mercantile, giacché davvero si naviga a vista: gli occhi del capitano, che si costringe alla vita terrestre, sulla moglie che non sa dominare.

L’ebanisteria è psicologica, le luci soffuse, la verità opaca, l’amore litigarello, comunque bello, la nostalgia del futuro, che Enyedi modella a immagine e somiglianza di un cinema che non è più, ed è ancora.

Produttivamente c’è lo zampino di Rai Cinema, da cui viene un Sergio Rubini francamente eccessivo e dunque distonico e un cammeo di Jasmine Trinca, poeticamente l’apologo, e l’apoteosi masochistica, del sospetto, del dubbio.

Non è un film perfetto, ma sa dissimulare con gusto e sostanza: cinema de papa, fedifrago però. Belle scene da un matrimonio che non s'ha da fare.