Consuma. Compra. Produci. Vendi. Muori. Sempre di più. Sempre più velocemente. Efficienza, produttivismo, velocità, aumento dei ricavi. 

Sono i dogmi che rimbombano per i magazzini di The Store, rabbioso e lucidissimo J’accuse di Ami-Ro Sköld alla società consumistica. Dito puntato, senza paura, sulle storture del sistema neocapitalista che strapazza in un vortice di stress e produttivismo esasperato i suoi lavoratori. Impiegati sempre più poveri e sfruttati, sempre meno consapevoli, intrappolati in questa schiavitù dell’efficienza travestita da impiego stabile.

I volti della vessazione legalizzata sono quelli di Eleni, Jackie, Iida, Adin, Maja. Giovani, angosciati, frustrati: sono madri, padri, proletari, vagabondi. Vivono tra stamberghe sovraffollate, letti comuni, levatacce e occhi pesti. Ogni giorno spacchettano i prodotti nel supermercato, riempiono gli scaffali – l’assalto al pollo che occhieggia quello alla stele delle scimmie di Kubrick –, snelliscono invano le file alla casa. Una vita fatta di ritmi infernali, pause col contagocce e paghe misere.

In più, un giorno Eleni, algida responsabile delle risorse umane e neo mamma, è messa di fronte a un aut aut dal direttore della catena: o sforbicia del 10 % i costi del lavoro o sarà messa alla porta. La donna, così, vira verso i contratti a chiamata: tutti i dipendenti sull’attenti, sempre, anche se vivono a ore dal supermercato. Inizia la guerra santa dei pezzenti che si accapigliano per un turno di un’ora. Aumentano corse, tabelle, prodotti smistati a ritmo forsennato. 

Ed è subito Chaplin (a braccetto con il Loach più indignato), ma i Tempi moderni secondo Ami-Ro Sköld sono incrudeliti, sconsolati, senza ironia né speranza di palingenesi, se non in quelle comunità che sperimentano una socialità alternativa tramite gli scarti di magazzino.

Insomma, anche se la monarchica Svezia, dopo decenni di socialdemocrazia nel 2022 si è buttata a destra, la regista non si arrende: usa la cinepresa come un sismografo per registrare inquietudini e disperazione dei vessati da un sistema socio-economico al collasso, distruttore dei legami e delle coscienze – i lavoratori che sussurrano “Forse chiamo i sindacati” – Eleni e Jackie una volta amiche, ora l’una contro l’altra, Alin che proibisce il pattinaggio alle figlie -, e delle più basilari forme di compassione.

Sköld (anche sceneggiatrice) accarezza questa umanità di risulta, compartecipa al dramma con una regia che sprizza impeto civile. A impreziosirla, poi, l’attenzione alle donne, vittime tra le vittime (le bambine che sognano il pattinaggio, Eleni che si asporta, anzi si strappa il latte dal seno).

Un cinema sporco, impietoso e sfrontato che indica cause e conseguenze senza didascalismi né pietismi, suggerendo con coraggio, pure una via di fuga alla barbarie.

Non solo sporco ma anche proteiforme: ballando tra il dramma sociale e inaspettati squarci di lirismo naturalista, quando il realismo sta per sfociare nel puro doc, spunta, a bilanciarlo, l’animazione: i lavoratori diventano tormentosi pupazzi di cera dai volti butterati e deformati, torchiati dai ritmi della catena produttiva (“Sei quasi un minuto più veloce di prima” sussurra una magazziniera alla collega in lacrime).

Insomma, fallito il socialismo, Sköld lotta all’arma bianca contro la capitalismo. La sua cinepresa compone un campionario dialettico di umanità vessata: lavoratori poveri, alienati, incapaci di ribellarsi, consumatori ignari della tragedia antropologica che si consuma dietro il reparto carni, e imprenditori devoti unicamente al dio denaro.

Produrre, vendere, consumare. Distrutta la social catena umana, resta solo quella produttiva.