Immaginatevi – se potete – L’homme semence di Violette Ailhaud raccontato da Virginia Woolf sotto acido, filmato da Terrence Malick dopo una vacanza nei Cévennes, con un tocco di The Beguiled versione Coppola, ma senza lo smalto alla vaniglia e le camicie di cotone stirate col fiato. Ecco: The Sower è questo – una parabola contadina che si muove in punta di piedi tra l’erotismo represso e la pittura realista ottocentesca, senza mai schiacciare l’acceleratore sul melodramma, e proprio per questo capace di una dolce violenza dello sguardo.

La cornice (letteralmente): 4:3 come il ritratto di un’assenza

Marine Francen esordisce con un film che sembra uscito da una cornice: il formato 4:3, la composizione rigorosa, le luci da golden hour permanente. Ma questa pittura vivente – come fa notare un critico con senso della misura – rischia di essere troppo bella. Il paesaggio, i corpi, persino le spighe: tutto sembra in posa per l’eternità. La bellezza qui è un’arma a doppio taglio, una trappola dorata. O meglio: un’estetica del confinamento, dove la perfezione visiva sublima (e a volte neutralizza) il potenziale politico ed erotico del racconto. Come se ogni quadro dicesse “non toccare” anche quando vorresti entrarci con le mani sporche di terra e le ginocchia sbucciate.

La storia: un patto, un uomo, e il ritorno del rimosso

Siamo nel 1851, e Louis-Napoléon ha appena deciso che la democrazia non fa per lui. Gli uomini del villaggio vengono deportati in un galoppo filmato come un incubo impressionista (montaggio sincopato, polvere, zoccoli, urla – tutto condensato in pochi secondi e poi via, il silenzio). Restano le donne, e il tempo si dilata: falciatura, grano, pioggia, cuciture, silenzi. Un mondo senza verbo maschile. Poi arriva lui, Jean, il fabbro (che sembra uscito da un catalogo di archetipi virili, sezione “rustico ma onesto”), non un Adamo con le “chiappe come mele” come fantasticava Violette, ma abbastanza sensuale da mandare in crisi il patto segreto delle donne.

The Sower
The Sower

Ed ecco il cuore del film: non il triangolo, ma il cerchio. L’accordo comunitario che si sfilaccia quando irrompe il desiderio non condiviso, l’elemento tragicamente umano dell’innamorarsi — che è, tra tutte, la forma più silenziosa e devastante di diserzione. La collettività vacilla, il senso del patto si sfibra, non per colpa, ma per inevitabilità. E il film lo sa, lo accetta, lo registra. Non c’è una scena che gridi, un gesto che violenti la grammatica del film. È tutto dolente e contenuto, come quando ti accorgi di aver perso qualcosa ma non sai ancora cosa.

Un sogno contadino? O una distopia gentile?

Potrebbe sembrare un sogno, questo film, ma non è quello zuccheroso dei poster motivazionali con le farfalle. È un sogno denso, torbido, dove la bellezza non consola ma inquieta, dove la luce accarezza il dolore anziché cancellarlo. Un sogno che sogna l’autogestione, la sorellanza, la sopravvivenza, ma finisce per ritrovarsi sempre davanti alla stessa, irrevocabile domanda: che ne facciamo del desiderio?

The Sower
The Sower

The Sower

C'è in tutto questo una tensione sotterranea, che non esplode ma fermenta, come il mosto chiuso in cantina. Perché The Sower è anche questo: un film che lavora per lentezza, per accumulo. Un’estetica della germinazione. Ogni scena aggiunge un grano, ogni sguardo è un gesto agricolo. Si pianta, si aspetta. Si spera che cresca qualcosa. Magari non oggi. Magari dopo.

(Postilla: sull’amore come sradicamento)

Ed è questo il punto, forse: che in un film costruito sul patto, il vero trauma è la rottura dolce, il momento in cui Violette e Jean si scelgono fuori dalla regola. L’amore – in questo contesto – non è la soluzione, ma la faglia. È ciò che rompe la simmetria, che reintroduce la verticalità del sentimento in un mondo che aveva scelto la linea orizzontale della sopravvivenza comune. È anche il gesto più inutile e più necessario del film.

E così The Sower, sotto la sua superficie da affresco rurale, diventa una riflessione un po’ telefonata sul corpo sociale, sul femminile come infrastruttura invisibile della tenuta collettiva, e sull’irruzione sempre inattesa dell’individuale che frantuma ogni utopia condivisa. Il tutto in 4:3, a passo lento, con una cinepresa che non ti impone mai cosa sentire — ma ti lascia lì, a frugare tra le zolle di ciò che resta.