L'espressione “C’era una volta” introduce, nell’immaginario universale, una struttura narrativa in cui il tempo e lo spazio non sono ben definiti e dove l’intreccio segue il proprio decorso. The Quiet Girl di Colm Bairéad (vincitore della Generation Kplus dell'ultima Berlinale e candidato all’Oscar per il miglior film internazionale), tenute in considerazione le caratteristiche appena citate, può essere valutata come favola contemporanea con alla base il disciplinamento della giovane protagonista.

Nella campagna irlandese, Cáit, una bambina di nove anni, vive insieme all’impoverita famiglia di contadini. Poco e mal considerata dal padre disattento e dalla madre alle prese con la numerosa prole, trascorre le sue giornate nascondendosi da tutto e tutti. Un’estate Cáit è mandata dai Kinsella, coppia senza figli con un triste segreto sulle spalle, offertasi di ospitarla. Finalmente accolta in un ambiente rassicurante, la ”quieta” ragazzina riuscirà a integrarsi con la dolce Eibhlín e il dapprima taciturno Seán, scoprendo sé stessa e la confortante condizione di essere una figlia amata.

Adattamento di Foster, racconto della scrittrice Calire Keegan pubblicato nel 2009 sul New Yorker, presenta i classici ruoli del romanzo di formazione: la piccola emarginata dalla famiglia contraddistinta da un’egoistica indifferenza, incline ed incassare vessazioni sociali, anche da parte delle acrimoniose sorelle, viene salvata da persone amorevoli, desiderose di donare protezione.

E come in ogni Bildungsroman vi è la maturazione individuale dell’eroina, l’attenzione ai suoi sentimenti e ai pensieri implicitamente trasmessi, il monitoraggio del cambiamento, rilevato dall’affievolirsi dell’insicurezza ereditata dal proprio contesto d’origine e lo strutturarsi della fiducia trasmessa dall’avere affetto.

Ad affiancarsi all’evoluzione di Cáit, lo sviluppo comportamentale di Seán che, a differenza della moglie subito ben disposta, riesce a riporre i modi risoluti da contadino, per far emergere la sincera capacità di accudire l’altro, giorno dopo giorno, contribuendo a costruire una forte complicità familiare contrassegnata da azioni condivise che permettono di conoscersi nella semplicità dei gesti abituali.

Quotidianità espressa con il susseguirsi di immagini (troppo) spesso rarefatte, artificiose e poco realistiche che hanno però il valore di rappresentare la tranquilla campagna irlandese dei primi anni Ottanta, fatta da zone rurali, acque cristalline e da un silenzio divenuto strumento con cui indagare il quotidiano. La soggettivazione dell’assenza di dialogo diviene qui espressione di una comunicazione non verbale che delega agli sguardi e alle azioni lo svilupparsi di un piano conoscitivo in più.

Ma quelli che il film evidenzia sono un inalienabile diritto e un cogente dovere: il diritto di essere bambina e insieme figlia, pretendere genuina accuratezza e il conseguente dovere di essere genitore, tutore e disinteressato sostenitore. Perché non si è padri o madri solo appellandosi alla genitorialità biologica, ma lo si è soprattutto nel momento in cui il superiore interesse è quello della cura del figlio e nient’altro.