Non bastano un mostro, un’inquietante bambina via Shining, la solita casa infestata e cascate sonore a fare un horror.

L’esordiente Oliver Park, dopo più best sellers e cortometraggi di successo, rielabora alla rinfusa, con un certo feticismo collezionistico, tutto l’armamentario del genere in salsa funerea, ma confonde spettacolarizzazione e tempesta di riferimenti con una (solida) drammaturgia.

Così la storia, tanto ambiziosa quanto scombiccherata (a partire dal titolo che cancella l’originale, più evocativo Abyzou), rimane azzoppata dalla sua stessa bulimia visiva e dall’esoterismo in salsa giudaica.

Il retroterra mistico-cinematografico, insomma, soffoca la trama che deve sgomitate per issarsi e camminare sulle sue (gracili) gambe, sin dall’inizio, quando Artur (Nick Blood), rinnegate le origini ebraiche, torna nella casa d’infanzia con Claire (Emily Wiseman), l’amabile e inconsapevole mogliettina in dolce attesa.

Papà Saul (nomen omen), infatti, vedovo da tempo, è rimasto da solo a gestire le pompe funebri per la comunità chassidica ortodossa di Brooklyn. Ma accoglie senza rancore i due sposini nel villino: due lugubri piani e un seminterrato adibito a obitorio (vi ricorda qualcosa?). La riconciliazione padre-figlio è interrotta, però, dall’arrivo del cadavere del vecchio Yosille che porta al collo un ciondolo magico (anche qui, stessa domanda di sopra). A sezionarlo rimane Arthur, perchè il padre e il suo luciferino aiutante Hemish (Paul Kaye) si assentano.

Quando il ciondolo si spezza e Artur lo spinge in un canale di scolo ecco la fanfara di demoni risvegliati, spiriti maligni, porte che sbattono, visioni, vetri distrutti, luci intermittenti. Il vecchio Saul ci rimette subito le penne ma prima fa in tempo a scoprire, da Hemish, che il figliol (poco) prodigo voleva ipotecargli la casa per saldare i debiti. Sarà morto di crepacuore o perché posseduto? Nel dubbio (e nel senso di colpa), Artur e Claire rimangono a fronteggiare (ma poi neanche tanto) gli spiriti del demone Abyzou che brama la nascitura per tenersi in vita.

La storia, da lì, si spinge in avanti per contorsioni e capriole su sé stessa, a volte dimentica di sé, altre cercando di rianimare la suspence con badilate di effetti speciali, manifestazioni e boati sonori che spesso paiono puro compiacimento effettistico.

Per di più, sembrano molto più ispirati (perché sfaccettati) i personaggi di contorno -come Kyle, l’aiutante di Saul o Anton Trendafilov, il morto posseduto- dei protagonisti Blood e Wiseman, condannati da Park a recitare in un mono-registro tutto panico, occhi terrorizzati e paralisi dell’azione. Così il momento della consapevolezza, delle sportellate contro il Male è rimandato a lungo, quando, per fortuna, gli sceneggiatori Hoffman e Yunger ributtano dentro il villino Kyle e perfino il rabbino della comunità pur di sbloccare Arthur.

Ma Park si intestardisce fino alla fine (e alla nausea) a lucidare il registro esoterico, luttuoso e maschiocentrico senza fluidità discorsiva né pienezza, istoriando, dunque, più una carrellata dissociata di feticci, cliché e omaggi che un film.