Sul grande schermo, almeno negli ultimi mesi, sventola la bandiera di Sua Maestà. Poche settimane fa abbiamo visto lo strappalacrime L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Hettie MacDonald (tratto dall’omonimo successo letterario di Rachel Joyce), a breve arriverà La zona d’interesse di Jonathan Glazer, superfavorito a Hollywood per la statuetta come miglior film internazionale. Adesso è invece il momento di The Miracle Club di Thaddeus O’Sullivan. A tratti ricorda il viaggio di Harold Fry. Anche qui c’è l’on the road, l’andare degli anni, la rielaborazione del passato.

Alcune amiche si incontrano di nuovo. A unirle è un lutto, ma anche la volontà di partire insieme, di abbandonare la Dublino degli anni Sessanta per andare a Lourdes. Sono alla ricerca di un miracolo. Generazioni diverse vengono messe a confronto, figli e genitori si confessano. Anche qui, come per MacDonald, il motore propulsivo per alcuni personaggi è una lettera. La parola sfida l’immagine, ancora una volta, attraverso il talento e l’espressività di Kathy Bates e Maggie Smith.

Negli Stati Uniti il filone religioso è ben codificato, gode di un suo pubblico. In Europa però difficilmente trova un suo spazio. Con gli stilemi della commedia zuccherosa, The Miracle Club potrebbe essere uno dei titoli più convenzionali, nonostante la rilevanza dei nomi in cartellone. Si perde in una confezione patinata, ha poco mordente, e Lourdes è un luogo da cartolina. Non se ne coglie il mistero, e neanche l’ambiguità. Difficile “catturarlo”, descriverlo solo con la macchina da presa. Ci ha provato Jessica Hausner nel 2009 con l’intenso Lourdes, in cui laicità e fede avevano una loro armonia. Raccontava di una giovane con la sclerosi multipla, che inseguiva un po’ di fiducia nell’avvenire. Chissà se O’Sullivan ci si è ispirato: in ogni caso non è riuscito a replicarne la forza, anche solo attraverso i sorrisi.

In The Miracle Club l’elemento spirituale è solo un pretesto, in una storia che si rivela ricattatoria. Ci si muove su sentieri fin troppo battuti, l’evolversi è didascalico, senza sorprese. La ricerca di sé stessi non scava in profondità, i traumi mai sopiti faticano a essere incisivi. Peccato, perché il “miracolo” è un sempreverde da un punto di vista narrativo. Può avere un significato spirituale, oppure indicare semplicemente la speranza in un futuro migliore. Sembra essere comunque un sentimento che accomuna i registi d’oltremanica. Harold Fry inizia il suo cammino col desiderio di raggiungere una persona cara prima che muoia, il trio di The Miracle Club prega che venga loro concessa una grazia, e il cineasta Jonathan Glazer in La zona d’interesse si sofferma sulla banalità del male, sull’orrore dell’Olocausto perché non si ripeta ancora.

La nostra speranza per il domani è che, avendo a disposizione Kathy Bathes e Maggie Smith, si possa dare vita a una sceneggiatura più ricca di sfumature, alla loro altezza. Invece di confinarle in una prevedibile epopea al femminile che fatica a dare emozione.