Coproduzione anglo-americana, The Lodge segna la prima esperienza di Veronika Franz e Severin Fiala fuori dai confini austriaci. Presentato nel gennaio 2019 al Sundance Festival, il film arriva dopo l’acclamato debutto di Goodnight Mommy, l’horror passato a Venezia nel 2014 e poi ampiamente apprezzato dalla critica americana.

Piuttosto che ricalcare le tracce della fortunata opera prima di fiction o dissolversi in un progetto senza personalità, Franz e Fiala (rispettivamente compagna e nipote di Ulrich Seidl) hanno scelto di lavorare attorno a un soggetto dello scozzese Sergio Casci, al cui interno troviamo elementi già presenti nel film precedente.

Sotto l’egida della storica Hammer Film e della FilmNation Entertainment, Franz e Fiala volano in terra canadese e ripensano i propri temi in una dimensione alternativa. A prima vista, The Lodge sembra un’appendice all’esordio, ma a vederla meglio è un’operazione più stratificata.

Tornano due fratelli, questa volta un adolescente e una bambina. E torna una donna con cui costituiscono un inquietante triangolo isoscele. Anzi: in realtà le donne sono due. Oltre alla protagonista c’è un altro personaggio femminile, che scompare quasi subito, imponendo il peso della propria assenza per tutta la storia. È la mamma dei ragazzini che, incapace di accettare la nuova relazione dell’ex marito, lascia i figli con il padre, beve un calice di vino e si spara in bocca.

L’uomo decide, allora, di trascorrere le vacanze di Natale nel suo chalet di montagna con i figli. Porta con sé anche Grace, la nuova giovanissima compagna. Quando lui deve tornare in città per un impegno di lavoro, la donna cerca l’occasione per familiarizzare con i ragazzini. Tuttavia, nella notte, si manifesta un’oscura presenza che fa riemergere i traumi del passato.

Teorici dell’horror consapevoli di rivelare la paranoia attraverso una prospettiva priva di compassione, Franz e Fiala mettono in campo un rebus allegorico, reso evidente dal dialogo tra gli spazi del racconto.

The Lodge è un film di case, come si vede in un incipit che passa dalla dimora borghese della mamma suicida a quella moderna del padre. Dunque una casa di bambole (praticamente dei doppelgänger) che è da subito il plastico di una scena del crimine. E, infine, lo chalet isolato, immerso nella neve, che di quel giocattolo ne replica stanze e suppellettili.

I confini tra reale e inspiegabile sono sfumati e impercettibili, la paura di perdersi nel vuoto si fa palpabile a mano a mano che gli oggetti scompaiono, la claustrofobia atrofizza lentamente la nostra capacità di controllo.

A chi credere tra l’antipatica revenant sotto farmaci e gli ambigui ragazzini sconvolti? Gli spettri (forse) si annidano nei quadri votivi, nelle voci dell’onnipotente, nei simboli religiosi. Misterioso atto di dolore, percorso penitenziale in un purgatorio ipotetico, giocattolo perverso in definitiva più disorientante che sconvolgente.

In fondo un bene, perché all’effettaccio di un qualsiasi horror da multisala i registi preferiscono modulare un’insinuante inquietudine attraverso una spietata regia geometrica. Quanta ansia, per dire, in quel palloncino nero che non riesce a volare perché legato a una bambola.