Mentre guarda Alan Arkin che lo interpreta in un tv-movie di fine anni ’70, Simas Kudirka fa una battuta sullo stile fin troppo americano del film. Kudirka però, suo malgrado, è stato protagonista di una storia molto “americana”, si direbbe hollywoodiana, che la regista Giedre Zickyte racconta in The Jump, documentario presentato alla Festa del Cinema di Roma 2020.

Kudirka era un marinaio, lituano di nascita e forzato dall’occupazione dei paesi baltici a operare per la marina sovietica. Divenne noto nel 1970 per aver approfittato dell’incontro diplomatico con una nave statunitense ed esservi saltato dentro, per disertare e chiedere asilo agli USA. Ma per questioni politiche, o forse per errore, venne rispedito ai russi e finì in un lager. Zickyte, aiutata in fase di scrittura da Josh Alexander, parte da qui, in realtà, ovvero dall’ingiustizia subita e ne tira fuori un documentario civile che con lo stile americano gioca in più di un’occasione.

A condurre le danze è stesso Kudirka, oggi 90enne, che da istrione forse inconsapevole parla, si racconta e si mette in scena, come in una forma grezza ed efficace di auto-rievocazione, un reenactment come si usa dire, in cui il vecchio marinaio interpreta sé stesso, rivisita e riabita i luoghi della storia, dalla nave in cui tutto è cominciato fino agli Stati Uniti che rocambolescamente lo accolsero. Parallelamente, la regista conduce un lavoro di archivi, ricerca e testimonianza di alto profilo (arriva persino a intervistare Henry Kissinger) che il montaggio di Thomas Ernst e Danielius Kokanauskis rende avvincente, come un film americano.

credits: Tomas Ivanauskas
credits: Tomas Ivanauskas
credits: Tomas Ivanauskas
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Così, quando Zickyte innesca il cortocircuito con The Defection of Simas Kurdika, diventa chiaro il punto del film, il suo senso cinematografico: che di certo è raccontare una storia esemplare, di quelle fatte per essere filmate da una macchina da presa, piena di tensione, conflitti e sentimenti personali e collettivi, ma soprattutto è quello di riflettere sul modo in cui la macchina da presa, volente o nolente, rende tutto romanzesco, il cinema porta necessariamente la realtà a un grado di rappresentazione, una bugia che ci fa realizzare la verità, per dirla con Picasso. Così tra il vero Kurdika e il suo avatar televisivo i piani si sovrappongono, tra sceneggiatura e racconto del reale il cinema non sa e non vuole distinguere. E dello stile americano non si riesce a fare a meno.