Cinema indiano e musica, spesso un connubio indissolubile. Ce lo spiegava bene nel 1984 Utpalendu Chakraborty nel documentario Music of Satyajit Ray, quando mostrava il maestro al lavoro sul sintetizzatore, mentre componeva le colonne sonore dei suoi film. Lo stesso Ray in Jalsaghar del 1958 raccontava di una serie di esibizioni legate alla musica classica all’interno del palazzo di un potente. E anche a Venezia 77, in concorso, il classicismo dei raga (melodie che lasciano ampio spazio all’improvvisazione) colpisce nel profondo.

The Disciple di Chaytania Tamhane è forse la vicenda più sorprendente vista fino a questo momento in concorso. Il regista aveva già narrato di un cantautore in difficoltà nel precedente The Court, che però aveva connotazioni da legal thriller. Qui invece Tamhane è più ambizioso e rigoroso, e si concentra sul lato umano. La macchina da presa si muove pochissimo, la sua staticità sottolinea la condizione di Sharad, un ragazzo che vorrebbe diventare un fuoriclasse dei raga. Ma non ha talento, come i pugili disperati di Città amara di John Huston.

Nell’India rappresentata da Tamhane viene descritto il confronto tra modernità e tradizione, tra influenze occidentali e crismi dell’India antica. Il cineasta lo mette in scena attraverso l’evoluzione del genere, in un dittico di grande fascino. Nella prima parte c’è lo studio, l’esercizio. Poi uno stacco al nero. Si torna in scena più di un decennio dopo, e si affacciano il fusion, le passioni alla Saranno famosi, l’invidia per chi ha fatto carriera.

Ma la battaglia più grande si consuma tra mito e realtà. L’immagine dei mentori, che gli allievi vorrebbero fosse pura, nasconde molti punti oscuri. Così Tamhane si spinge oltre. S’interroga sull’essenza dell’arte, sul suo ruolo di amante egoista, che potrebbe essere di tutti ma si concede a pochi. In una delle sequenze più forti, Sharad è seduto insieme a un famoso critico, che inizia a distruggere tutti i punti di riferimento musicali del protagonista. Improvvisamente i guru diventano uomini cinici, persi nella loro superbia. La favola finisce, si fa strada un contemporaneo doloroso.

The Disciple rifiuta gli orpelli di Bollywood, apre un mondo per molti di noi lontano, senza enfasi né retorica. Abbraccia la sconfitta con quieta saggezza, per ricordare che le persone comuni sono fallibili, e che forse neanche sul grande schermo si può credere nei sogni. Una curiosità: nei titoli di coda, come produttore esecutivo, appare il nome di Alfonso Cuarón.