Che cos’un sogno? Che impatto ha nella nostra vita? Quando sogniamo, cosa e chi sogniamo? Esiste il sogno o la realtà (sensibile)? Si possono  dissociare i due livelli?

Per la sua prima regia, Kjersti Helen Rasmussen (anche sceneggiatrice) sceglie di risvegliare - fuori tempo massimo – discussioni che la psicanalisi in primis, cinema, letteratura e tutte le arti poi, hanno felicemente archiviato da decenni.

Le sue creature non leggono Freud (“e non vivono cent’anni….”), non hanno mai visto (forse) Buñuel o Lynch. Dunque, ignorano la densità semantica, rivelatoria dei sogni. Di fatti, sono alacremente occupate a negarli, a scavare un fossato invalicabile tra sogno e realtà, tra visioni e visibile, tra giorno e notte.

Solo che la giovane Mona (Eilie Harboe) per sua disgrazia, per quanto ci provi, ne è totalmente in balia. Trasferitasi con l’amato Robby (Herman Tømmeraas) in un appartamento da ristrutturare, è infestata da paralisi del sonno e sonnambulismo. La ragazza, però, sola di giorno in casa mentre il maritino è via, accampa scuse, minimizza, anche perché Robby, tra una paternale e una carezza, non fa altro che tranquillizzarla, riducendo a spaventi passeggeri la sua attività notturna.

La donna, però, rimasta incinta, prende a tormentarsi sulla maternità: accolta, scacciata, forse tutte e due le cose, ma sempre aleggiante come uno spettro nella sua quotidianità fatta di yoga, muri da scrostare e rimpianti per il lavoro perduto, (con i bambini….). Presto. però, le visioni dilagano, la scienza (l’oscuro neurologo Aksel) non è ascoltata e l’equilibrio di coppia si incrina: pianti, culle vuote, neonati in fasce esondano nella mente di Mona. Nel frattempo, conosce un’inquietante coppia del pianerottolo di fronte: lei si butta presto dal balcone, mentre lui è ossessionato da Mare, un demone che si anniderebbe nei neonati.

Proprio gli archetipi figurativi sono la cifra espressiva e la riconoscibilità narrativa di quest’opera prima, perché Rasmussen scena dopo scena, cerca di sconvolgere l’apparente quiete casalinga dei due giovani a colpi di demoni – rubati a Goya - che ”cavalcano” i dormienti: culle vuote; neonati in fasce; grembi gonfi; vasche ricoperte di sangue; mariti che negli incubi assumono un aspetto mostruoso.

Tutti elementi che vorrebbero imprimere vertigine, imprevedibilità e terrore alla curvatura narrativa, ma la statica composizione della sceneggiatura, disciplinatissima nei picchi narrativi, e algida, quasi burocratica nella relazione con le sue creature, non prende mai il passo giusto.

The Dark Nightmare più che tra incubi e realtà, così lotta tra forma e contenuto, tra l’impulso di abbandonarsi alle manifestazioni del Male (Mare, decidete voi) e l’istinto ad ammansirlo troppo presto, senza mettere spalle al muro i protagonisti per mantenere controllo di sguardo e quadra narrativa. Più della scrittura, così, – nonostante l’andamento a scatole cinesi: la realtà riversata nel sogno che si riversa in un altro sogno….-, una certa pulizia di regia e di sguardo di genere si fanno apprezzare, ma il montaggio è orfano di un’impetuosità di ritmo e imprevedibilità.

Insomma, Rasmussen tiene chiusi i libri di psicanalisi e spalanca quelli di mitologia (esoterica). Non basta, però, la messa in discussione della maternità come fulcro di polemica, – che se non è così provocatoria come si vorrebbe, è comunque socialmente lucida - la regista scruta da una teca i suoi protagonisti mentre loro si tormentano.

Come risultato, questo horroretto da camera (matrimoniale prima, d’ospedale poi) rimane privo di un’impalcatura visiva del terrore (quella concettuale c’è); di una manifestazione plastica, non evocativa del Male; di struttura più fluida, più ondeggiante, e soprattutto, un’irruenza di azioni e sentimenti più sbalordente, più romanzesca, più incontrollata.