Pubblichiamo la recensione di The Crown, tratta dal numero 12/2020 della Rivista del Cinematografo. Scopri come abbonarti

The Crown è una fiction. A quelli che denunciano un crimine di lesa maestà all’approssimazione storica, Peter Morgan, il suo sceneggiatore, ha già risposto creativamente al debutto della terza stagione. Elisabetta II osserva due ingrandimenti di francobolli: sul primo, il profilo della regina all’epoca della sua incoronazione è quello di Claire Foy, che l’ha incarnata fino a quel momento, sul secondo, il volto più maturo è quello di Olivia Colman, che eredita trono e costume.

Per coprire il seguito del regno di Elisabetta, The Crown cambia il cast ogni due anni, assumendo con meta aplomb reale la libertà del suo racconto, il fatto che i suoi personaggi non siano esattamente la regina Elisabetta, il principe Filippo, la principessa Margaret ma i loro doppi romanzeschi. Personaggi di un’infinita ricchezza, messi potentemente in scena episodio dopo episodio secondo una formula vincente: ogni puntata tratta un avvenimento storico al quale fa eco una questione intima. Peter Morgan scruta senza sosta lo sguardo della famiglia reale sul mondo, sottolinea il suo sfasamento rispetto alla corsa sfrenata di una società in evoluzione, trova soprattutto un’avvincente materia drammatica nel contrasto tra il simbolo della Corona, l’immagine che vuole donare di sé, e la realtà dei sentimenti dei personaggi.

Dietro la britishness immutabile (e perfettamente falsa), dietro le porte aristocratiche, l’esercito di domestici e il savoir-vivre così deliziosamente old fashioned, The Crown disegna il ritratto di una famiglia disfunzionale, ascrivibile per lignaggio ai Soprano o a Six Feet Under. Peter Morgan ci presenta progressivamente i suoi componenti come dei privilegiati altezzosi e antipatici, poi come marginali così disperati che finiscono per emozionarci. Sottolinea le loro faglie emotive, rivela le loro paure, le incomprensioni e perfino il rammarico di appartenere alla famiglia reale, offrendo allo spettatore una magistrale lezione di drammatizzazione storica.

Prince Philip (TOBIAS MENZIES) and Queen Elizabth II (OLIVIA COLMAN). Cr. NETFLIX © 2020

Scegliendo di raccontare il regno di una sovrana ancora in esercizio, Peter Morgan rimette, con garbo e lungimiranza, Elisabetta II dentro il suo contesto politico. Tuttavia, nonostante i décor, i costumi, Winston Churchill o Margaret Thatcher, The Crown preferisce le tensioni intime della famiglia reale.

È una fiction realista che articola estetica e politica, provocando un attaccamento inatteso a personaggi (s)conosciuti e bizzarri. Certo, la serie lussuosa di Netflix ci erudisce regolarmente sui membri della teratologica famiglia Windsor, sui progressi del partito laburista e sulle resistenze di quello conservatore, sui grandi traumi del Paese a partire dalla seconda metà del XX secolo, ma il suo ancoraggio è meno nella storia contemporanea e più nelle ‘favole per adulti’ come The Queen di Stephen Frears, che presentava Elisabetta alle prese con la crisi nazionale della morte accidentale di Diana o Il discorso del re di Tom Hooper, che metteva in scena il padre di Elisabetta, Giorgio VI, e i suoi problemi di elocuzione risolti per il discorso del 1939.

Se il primo è scritto da Peter Morgan, il secondo è interpretato da Helena Bonham Carter, che ritroviamo nella terza e quarta stagione di The Crown come principessa Margaret, una genealogia bizzarra dove la stessa attrice incarna la regina madre e la figlia minore. Ma il paradigma artistico della serie non è solamente britannico. Come Mad Men (2007-2015), che ritorna sulla storia degli anni 1960-1970, combinando estetica (gli oggetti della pubblicità e il design degli anni Sessanta), mobilità sociale (con la professionalizzazione delle donne e la crisi degli uomini) e narrazione intimista, The Crown abbraccia la dimensione storica ma resta fondamentalmente umano.

La questione umana è al centro del racconto e di una drammaturgia infinitesimale, agita da eroi opachi in un movimento di andata e ritorno tra spettacolo della monarchia e vita quotidiana nel palazzo: la mitica incoronazione mediatica di Elisabetta vista banalmente alla televisione nella dimora parigina di un Duca di Windsor pieno di amarezza o il reportage sulla vita ordinaria della famiglia reale, destinata a migliorare la sua immagine ma rivelatesi deprimente e ridicola.

Quel rispecchiamento continuo è la forza della serie. A partire dall’immagine pubblica di personaggi conosciuti e familiari, Peter Morgan scrive un (melo)dramma mirabile, disegna eroi spezzati, che covano una melanconia quasi demodé. Come nella sigla, che ‘fabbrica’ la corona sacra e lontana, fondendo metalli preziosi, Morgan scrive la Storia a partire dalla materia umana. Non c’è spoiler che tenga, sappiamo cosa ne sarà di Churchill o di Kennedy, di Carlo o di Diana, di Margaret o di Camilla, tuttavia a ogni episodio la tensione è estrema. Perché il mistero è quello ordinario dei personaggi, ridotti alla loro più semplice (e franca) espressione.

L’Elisabetta di Claire Foy è capace di esprimere sofferenza, conformità o collera dentro un carattere totalmente convenzionale e alla fine inconoscibile. È lei, con la complicità di Morgan, a esprimere in forma simbolica il ribaltamento operato in permanenza dalla serie. È lei lo scoglio contro cui frangono la brillante Jackie Kennedy o la ribelle Margaret, rimessa immancabilmente al suo posto. Questo rovesciamento strutturale è anche il risultato del talento degli attori, nello specifico, nella capacità di Claire Foy di incarnare nelle prime due stagioni l’assenza di carisma e insieme la forza quasi sacra di un potere femminile.

Prince Charles (JOSH O CONNOR) and Princess Diana (EMMA CORRIN). Cr. NETFLIX © 2020

Con lei tocchiamo il dramma intimo di Elisabetta, che a soli venticinque anni diventa una funzione, un’immagine degna e silenziosa, mentre il mondo intorno a lei si agita. Un mondo che è composto principalmente dalla sua famiglia, coi loro capricci e i loro sogni di indipendenza, da una sorella a cui spezza il cuore e dai figli che guarda crescere da lontano, da una madre che la giudica e un padre che non potrà mai dirle il suo orgoglio.

La tessitura fisica, sensibile e morale ‘cucita’ da Claire Foy è così (in)credibile che, malgrado la sospensione dell’incredulità accolta in partenza, resistiamo all’avvicendamento e alla nuova Elisabetta di Olivia Colman, attrice immensa, appropriata al ruolo e già regina tragica (Anna) in La Favorita. Ma l’occhio finisce per abituarsi al nuovo volto che prosegue il regno di Elisabetta e quel pudore so british che piega Margaret, catalizzatore del soffio erotico della serie, e spezza Diana, incarnazione di quello che il sistema domanda alle donne, comprese quelle di potere: restare al loro posto senza osare muoversi.

È la storia di una famiglia maledetta, schiacciata dal peso della Storia e stritolata dalle proprie responsabilità. È la storia di una principessa, viso d’elfo e silhouette da étoile, amata da tutti ma prigioniera del suo palazzo. È la storia infine di una lady di ferro che sotto l’implacabilità della sua politica soffre di essere incompresa.

Nella quarta stagione, The Crown si fa più intimo. L’assassinio, nel 1979 per mano dell’IRA, di Lord Mountbatten, zio del principe consorte, introduce il suo soggetto: la violenza, la brutalità di un mondo senza pietà per tutti quelli che lo abitano, in particolare per le donne. Peter Morgan fa una scelta audace, passa in secondo piano gli avvenimenti marcanti degli anni Ottanta e si volta più che mai verso gli individui.

Per parlare del thatcherismo, racconta l’erranza di Michael Fagan, un disoccupato disperato che nel 1982 si introdusse nella camera della regina, per dire la sovranità rivendicata delle Islas Malvinas, narra la ‘deviazione’ del figlio di Margaret Thatcher durante la Parigi-Dakar, coltivando un gusto preciso per le digressioni, sovente utilizzate per rivelare il volto sconosciuto dei suoi personaggi. Poi decentra il suo racconto e consacra un terzo della stagione all’infelice unione tra Carlo e Diana. Dopo un primo istante di grazia e la parantesi incantata ‘agli antipodi’, la loro relazione diventa un lungo incubo. L’incertezza lascia il posto alla tristezza, l’amarezza a una collera sorda.

Dennis Thatcher (STEPHEN BOXER) and Margaret Thatcher (GILLIAN ANDERSON). Cr. NETFLIX © 2020

Il dramma reale di Morgan rinforza il côté melodrammatico e acutizza i tormenti familiari a cui la regina oppone una sordità paradossale. Sensibile alle inquietudini dell’epoca e alla necessità per la monarchia di avanzare al ritmo del mondo, nega l’infelicità dei suoi figli, rifiutando di approvarne i desideri. Efficaci e fermamente diretti, gli attori infondono a questa partitura intima una melanconia struggente. The Crown si reinventa intelligentemente, assume il suo lato soap, soddisfacendo il nostro appetito per una storia che credevamo di conoscere e di cui mostra principalmente la faccia nascosta, la più oscura, la più triste.

La quarta stagione finisce con un massacro che è anche un monito: il seguito sarà certamente più doloroso. Perché The Crown 4 ha ripreso il presente e il passato è prossimo, lo tocchiamo con le dita. Ancora troppo vivo, troppo vicino per noi, per la famiglia reale che non lo ha ancora seppellito sotto i libri di storia. La Royal Family britannica non ama le asperità e si vuole irreprensibile. Ma qualche volta la facciata scricchiola, un racconto come The Crown si infila nelle fessure e vediamo Diana vomitare. Ancora e ancora. Vediamo gli scandali, l’alcool, la solitudine. Vediamo Elisabetta seduta ‘sul trono’ della sua sala da bagno… Peter Morgan è lontano dalla realtà o magari è troppo vicino.