C’è Terrence Malick in cima alla lista dei produttori esecutivi di The Book of Vision, opera prima dell’italo-svizzero Carlo S. Hintermann che al misterioso maestro americano ha dedicato nel 2002 Rosy-fingered Dawn: un film su Terrence Malick.

Un connubio, quello tra i due, rafforzato dalla collaborazione in The Tree of Life, dove Hintermann dirigeva l’unità italiana. E proprio le atmosfere di quel film – per molti seminale – tornano in questo esordio che manifesta in modo piuttosto vistoso le ambizioni del regista, anche sceneggiatore con Marco Saura.

Magniloquente coproduzione (Italia, Regno Unito, Belgio) che accoglie attori (l’inglese Charles Dance, l’olandese Lotte Verbeek, lo svedese Sverrir Gudnason, anche la nostra Giselda Volodi che porta in dote il volto più singolare) e maestranze (il dop tedesco Jörg Widmer, il neozelandese Hanan Townshend autore delle ingombranti musiche) da mezza Europa, The Book of Vision allude nel titolo a un manoscritto del diciottesimo secolo, in cui un ambiguo medico prussiano scrisse i sentimenti, le paure e i sogni di oltre mille pazienti.

Una ricercatrice di Storia della Medicina, che ha rinunciato alla professione di oncologa per capire “chi siamo stati, chi siamo e chi saremo”, scopre e studia il testo, entrando in contatto nella sua dimensione onirica con i fantasmi nascosti in quelle pagine così perturbanti.

Sin dalle prime scene, la regia acrobatica e virtuosistica di Hintermann cerca di intercettare la fluidità di una narrazione liquida, sospesa tra passato e presente, sogno e materia, macchine e carne, lasciando che i corpi in transito tra le due epoche si perdano in un vortice di immagini a volte ipnotizzanti, qua e là disorientanti, di norma imperscrutabili.

A mancare, in questo film più complicato che complesso, è il piacere di perdersi in una visione estranea dalla contingenza dello spiegone, come se la confusa (anzi: confusionaria) resa estetica (anzi: estetizzante) non sia all’altezza del magnetismo lambito dal regista.

Resta il fascino verso un oggetto spericolato – ed è un merito – ma monco, che non sa trasmettere tuttavia il senso di un mistero fuori dal tempo, l’incanto angosciante, la malia arcana di una fantasia avvolgente.