Ci sono voluti più di sette anni, ma ne è valsa la pena: l'incursione di Hou Hsiao-Hsien nel più popolare genere cinematografico cinese, il wuxiapian, diventa l'occasione per un'esperienza visiva rigenerante: in The Assassin il ricorso all'action e agli effetti speciali, punti fermi del filone, lascia il posto a un incanto puramente contemplativo, un'immersione estetica in un mondo astratto,  riemerso dalle lontananze del tempo.

Tratto da uno dei racconti risalenti alla dinastia Tang (Nie Yinniang dello scrittore Pei Xing), il film è ambientato nel 9° secolo, nella fase di declino di quella dinastia. La storia non è semplice da seguire, per i tanti personaggi che occupano la scena e perché Hsiao-Hsien non offre troppe spiegazioni. Gli eventi non ci vengono narrati, ma accadono rivelandosi nell'esatto momento in cui li vediamo e poi scivolano, come tutti gli altri, nel flusso ininterrotto della storia. Non ci sono cornici, flashback e didascalie nei quali comprenderli. Bisogna scrutarli e tentare di riannodare i fili facendo attenzione a quello che si dicono i personaggi. L'invito parte proprio dal regista, che allinea il nostro sguardo a quella dell'eroina: sempre da parte, in incognito, nascosti dietro una tenda, spiando a distanza.

Lei è la fascinosa Shu Qi, vecchia conoscenza del maestro taiwanese, che l'aveva già diretta in Millennium Mambo (2001) e Three Times (2005). Nel prologo, girato nel formato 1.37:1 e in uno splendido b/n, Nie Yinniang viene istigata da una sacerdotessa delle arti marziali a mettere in pratica i suoi insegnamenti colpendo coloro che vengono giudicati colpevoli secondo il sacro codice della spada. Ma il rifiuto di Shu Qi di uccidere uno di questi in presenza di un bambino, le costerà l'allontanamento e una penitenza: dovrà eliminare Lord Tian, signore del distretto di Weibo e suo cugino. A questo punto lo schermo riprende colore e torna al suo classico formato panoramico 1.85:1, ma l'infallibilità della sua spada sarà frenata anche stavolta da uno scrupolo di coscienza.

Personaggi come quello di Shu Qi non hanno un'attrattiva classica, rimanendo in silenzio per la maggior parte del tempo e mancando di un'adeguata caratterizzazione psicologica. Hanno invece una dimensione ieratica, che li proietta nel mito e nel mondo degli assoluti: Nie Yinniang è una sorta di Antigone del wuxiapian, per quell'anteporre la legge del cuore a ogni altra. A Hsiao-Hsien non interessa però né la caratterizzazione, né l'identificazione né approfondire la componente femminile del film, ma portare il discorso a un livello più astratto: concettuale nel contenuto, estatico nella forma. Più degli avvenimenti narrati parlano determinate scelte di regia come il ricorso, inedito in Hsiao-Hsien, a close-up repentini, contrapposto al solito utilizzo di piani sequenza in campo lungo. Il close- up introduce un elemento di individuazione molto forte in un cinema dove da sempre lo Spazio e il Tempo della visione riflettono una macchinazione più grande dell'essere umano compreso al suo interno.

La vicenda e i suoi significati non devono però assorbirci più del dovuto, rischieremmo altrimenti di distrarci dalla magnifica cascata di immagini che The Assassin regala: tutto - dai paesaggi incantevoli della Mongolia al tessuto delle vesti, dai colori che in certi momenti sembrano prendere fuoco sullo schermo alle luci create dalla superba fotografia di Mark Lee Ping Bing - è visione, epifania, incantesimo, trasporto. Cinema al grado più alto di erotismo.