Complicato riassumere snodi e inversioni di sceneggiatura di Terminator Salvation, quarto capitolo della cyborg saga inaugurata 25 anni fa da James Cameron. La difficoltà sta nel ricorso vertiginoso ai paradossi temporali, a causa dei quali personaggi appartenenti ad epoche diverse convivono in un presente acronico, l'ordine narrativo può subire torsioni, e il futuro (già accaduto) essere modificato dal passato. D'altra parte un universo simbolico fortemente codificato come quello del film permette anche ai non aficionados di non pendersi negli ingarbugliati meandri della trama. Basti sapere che il giorno del giudizio è arrivato mentre impazza l'ultimo atto dello scontro tra umani e cyborg, e che la metafisica dell'ibridazione uomo-macchina viene qui sacrificata da una messa in scena crepuscolare nella forma –dominata da lamiere, fumo, ruggine e polvere - e muscolare nella sostanza, legata a un'idea fortemente analogica della fantascienza e a un immaginario popolato da corpi e metalli pesanti (con il cyborg Sam Worthington che ruba la scena all'umano Bale, come aveva fatto Heath Ledger nel Cavaliere Oscuro). Ruvido, sporco e angosciato, Terminator Salvation si rivela allora il residuato bellico di una sci-fi sciolta da un lato dei suoi proverbiali intellettualismi e dall'altro delle sue cafonate pirotecniche. Così orgogliosamente retrò da sembrare moderna.