Sweet Thing dice il titolo, ma cosa c’è di dolce nel nuovo film di Alexandre Rockwell (Orso di Cristallo per il miglior film della sezione Generation Kplus a Berlino 70 e ora presentato ad Alice nella Città)? Ogni cosa è illuminata dal bianco e nero sporco e granuloso di Lasse Tolbøll, immagini che costeggiano le visioni di Robby Müller: cinema indipendente in purezza, ma sarebbe più corretto dire cinema ribelle, cinema-contro, cinema personale (moglie e figli del registi sono i protagonisti).

Epica brada degli otusider: due fratelli, Billy (si chiama così per la Hollyday) e Nico, un padre devastato dall’alcolismo, una madre poco presente. La violenza abita lo spazio domestico, la fuga è l’unica via per immaginare una vita diversa: fuori ci sono le evocazioni del grande romanzo americano, c’è un nuovo amico che si chiama Malik ma potrebbe essere un novello Huckleberry Finn, c’è la possibilità di scopre il mondo on the road.

Attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, Sweet Thing sembra immaginare la bellezza che si nasconde dietro e dentro i colori sotto il bianco e nero, rincorrendo i rimpianti della vita sognata nei brevi inserti a colori che irrompono nella narrazione. Una jam session che rivela lo stato selvaggio della realtà, seguendo il battito accelerato della nazione lasciata ai margini, quella dei rinnegati che popolano i ghetti, la baracche dimenticate dal capitale.

È, ancora, un’interpretazione del romanzo di formazione come cartina di tornasole di un’intera narrazione collettiva, nella forma di un dramma che restituisce il qui e ora che prescinde il presente per collocarsi nel contemporaneo (che quando è davvero tale vale oggi come valeva ieri e varrà domani). Rockwell non fa cronaca ma musica, rifiuta di ancorarsi all’attuale e sceglie di raccontare l’epopea dei suoi piccoli eroi con un sapiente equilibrio di suggestioni nostalgiche e prospettive oniriche.

Frammenti di autenticità: la pasta scotta buttata in un piatto vicino al lavandino, la logora carta da parati che riveste lo spazio, il cibo gettato in faccia, le fughe con l’auto rubata. Sono pezzi di una performance libera e spiazzante, scatti di una corsa verso un’ipotesi di felicità.