Persino tra le macerie sboccia un bocciolo di speranza: circondata dalle miserie umane durante la Seconda Guerra Mondiale, la bambina protagonista di Storia di una ladra di libri scopre un inaspettato innamoramento per la letteratura. Nessuno avrebbe scommesso su di lei, analfabeta e povera, data in adozione dalla mamma, eppure Liesel (l'esordiente Sophie Nélisse) inizia quest'incredibile viaggio.
La storia, tratta dal bestseller di Markus Zusak (Frassinelli), parte dall'incontro con Hans Hubermann (Geoffrey Rush), tedesco di mezza età generoso e integerrimo, che la accoglie in casa con la moglie Rosa (Emily Watson), burbera e scontrosa o, come la descrive la piccola, simile ad un “temporale con i tuoni”.
L'unica parentesi di serenità, scritta con un gessetto bianco sul muro della cantina, è rappresentata dall'alfabeto che Liesel impara a leggere. “Una persona – le dice Hans – vale quanto la propria parola”: la sua onestà intellettuale non viene messa in discussione dai disagi subiti dopo il rifiuto del regime nazista e neppure l'indole ottimista, che esprime nel suono dell'adorata fisarmonica. Lo strumento, capace di irritare oltre misura la moglie, è stato il regalo dell'ebreo che gli ha salvato la vita: per ripagare quel debito di riconoscenza nasconde il figlio Max (Ben Schnetzer) per farlo scampare alla deportazione.
Con pennellate delicate il regista Brian Percival (Downton Abbey) tratteggia, grazie ad un cast sublime e ad una toccante colonna sonora, il ritratto poetico e struggente di una famiglia che tragiche circostanze rendono fuori dal comune. Niente retorica né buonismi: si arriva dritti al cuore della storia, dove i veri orrori vengono sfiorati, accennati, intravisti, sempre attraverso lo sguardo a tratti disincantato di Liesel, con quegli occhioni da bambolina velati da lacrime di malinconia e incredulità. Ecco come la tredicenne di origini canadesi stupisce e commuove senza sembrare mai “piccola” accanto a giganti del calibro di Geoffrey Rush ed Emily Watson.