In The Big Sick – Il matrimonio si può evitare, l’amore no, un ragazzo di origini pakistane rifiutava il matrimonio apparecchiato dalla famiglia perché innamorato di un’universitaria americana, fin quando la sua malattia scompaginava  e metteva alle corde la relazione.

Michael Showalter per il suo sesto lungometraggio riparte da qui: una storia ispirata a fatti reali, complicata dall’irruzione di eventi imponderabili. Il seme è l’autobiografia confessionale del giornalista tv Michael Ausiello: Spoiler Alert The Hero Dies che titola anche il film, opportunamente – per una volta – scorciato dalla distribuzione italiana. Ma i tempi sono cambiati: forse (si  spera) l’integrazione non è un tema scottante come ai tempi di The Big Sick (correva l’anno di grazia 2007, Obama era solo senatore), oggi l’America è presa nel vortice LGBTQ+.

Ecco allora Jim Parsons (sia attore che produttore) a incarnare il noto giornalista tv. Sociopatico, introverso, a disagio con il proprio corpo, maniaco dei Puffi e della Coca Zero, cresciuto a pane e serie tv, tanto da definire la sua vita in funzione di un immaginario televisivo.

Ma gli opposti si attraggono. In discoteca si innamora del marmoreo, fotografo Kit che sa a malapena come accendere la tv. Parte la liaison: zuccherosa ed esaltante, alti e bassi, i maglioni e l’albero di Natale, infedeltà e terapia di coppia, casa comune e case separate. Per di più, i genitori di Kit – Michael è rimasto presto orfano –con sua grande sorpresa, accettano l’omosessualità del figlio senza batter ciglio. Dunque, tutto a gonfie vele. Fin quando Kit scopre di essere affetto dal cancro. Aspettativa di vita: qualche mese.

Ma se i generi – comico e drammatico – sono due impastoiati, i bersagli variano e Showalter spara nel mucchio, alla cieca: sulle prime, l’ostacolo sembra l’accettazione di sé (solo fisica, eh). Ma Michael, bullizzato da piccolo, e accettato ora da Kit, si accetta. Spazio allora all’omofobia generazionale, ma i genitori del fotografo hanno “fatto Woodstock”, dunque make love whatever it is. Terza cartuccia: gli amori difficili. Innamorarsi è facile, tenersi di più, ci suggerisce Showalter non risparmiandoci niente del corollario obbligato del sottogenere: gelosia, scappatelle, la terapia di coppia, le case separate. Ma ubi malattia minor cessat. Ecco, allora l’ostacolo per il nostro eroe: accettare il mistero della malattia improvviso e della morte che ghermiscono il corpo dell’amato.

Finalmente il film getta la maschera: il tema è la malattia dell’altro come elevazione morale di sé, come transito obbligato per la crescita. L’uomo che di fronte al mistero della morte, si interroga, si (auto)analizza, si scopre impotente. 

Bene, ma niente di inedito né trascendentale. Ci si aggiunga, poi, che questo didascalico dramedy sentimentale scivola tra commedia e dramma, tra pima e seconda parte inavvertitamente, con poca amalgama. E ancora: la bizzarria distributiva del portare in Italia una storia di spirito natalizio – in America è arrivata in sala il 2 dicembre scorso - quando le spiagge cominciano ad affollarsi; per non parlare dell’impianto narrativo: in due ore scarse, senza usare forbici e lenti di ingrandimento, è difficile raccontare le montagne russe di una vita tribolata, ma con un suo seme di verità ed esemplarità. Il regista, però, si scorda gli attrezzi nel cassetto, si mette a filmare riga per riga tutto il libro, ed ecco la cornucopia multifocale di cui sopra.

Nella confusione, però, anzi nell’approssimazione, qualche buona intuizione: la recitazione di Parsons, la trasfusione identitaria vita-televisione, qualche scena scritta con garbo – Kit nella casa di Michael sommersa di Puffi che parla di tutt’altro -, ma tante altre sovrabbondanti: sul finale si contano anche quattro fuochi tematici in una sola.

Soprattutto sui titoli di coda rimane un senso derivativo per una storia edificante, anche giustamente moralizzante che pare solo un’occasione mancata per innovare un filone già visto.