“Non esisterà più un’altra Camelot”, rivelava disperata Jacqueline Kennedy in Jackie. Dopo la morte del marito, si concludeva un ciclo che in molti credevano non potesse mai giungere al capolinea. Pablo Larraín si interroga sulla Storia, come aveva anche fatto in Neruda. La realtà diventa qualcosa di inafferrabile, le linee temporali si fanno relative, come i luoghi abitati dai suoi protagonisti. Tutto cambia, è mobile, circolare.

Spencer, presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2021, riflette sull’andare del tempo. Tra presente e passato non c’è differenza, dice la sua Lady Diana, una Kristen Stewart dolente, ispirata. A Larraìn non interessa la veridicità, l’accuratezza storica. Il suo obiettivo è cogliere il sentimento, annullando lo scorrere dei decenni, facendo dialogare le epoche. Per questo Diana, chiamata pochissime volte per nome, comunica con Anna Bolena. Le due "regine" si sentono unite nel destino che le attende. Incombe l’inevitabile, da cui però la vicenda si tiene a distanza.

La morte è un fattore interiore, non fisico. L’unica via di fuga è sublimare la sofferenza, come avviene durante il ballo di Diana per i corridoi del palazzo. Bisogna evadere dalla cronaca, dall’attualità, fare l’operazione opposta rispetto a Jackie, in cui si aprivano le porte ai giornalisti. Ed è proprio qui che Larraìn ci fornisce la sua chiave di lettura, quella di una favola ispirata a una tragedia vera. Può la narrazione spingersi oltre, immaginare, rielaborare? Spencer ne dà la prova.

 

La principessa in crisi d’identità è la vittima, rinchiusa in un castello dove non può neanche aprire le tende. Il suo cavaliere la tradisce, è circondata da nemici, nessuno sembra proteggerla: luci e ombre della famiglia reale più famosa al mondo. Ma qui siamo molto lontani da The Crown, che nella quarta stagione aveva messo Diana al centro del dramma. Larraìn non si sofferma sulla Diana delle immagini, ma sulla sua anima. Per questo Spencer diventa un film di fantasmi, di presenze/assenze.

Bellissima la sequenza in cui lei torna nella casa in cui è cresciuta, avvolta nella nebbia. In quel momento sembra astrarsi, abbandonando un universo terreno per farsi puro spirito. Il talento del cineasta cileno è di destrutturare le apparenze, cercando un’altra dimensione. Il continuo cambio di vestiti di Diana segna un percorso di inadeguatezza, di oppressione costante. Qui il sopruso attraversa la mente, è come se assistessimo a una guerra. Non a caso l’unico confronto diretto col consorte avviene ai due lati opposti di un tavolo da biliardo. È una sfida, nessuno dei due si muove, è la macchina da presa che si avvicina e si allontana da loro, in una sinfonia che trova nel disincanto il suo tratto particolare.