Acufene improvviso. Suoni, rumori, parole, che a intermittenza non si odono più. Ruben (Riz Ahmed) è un batterista punk-metal, di fronte a un bivio. L’esistenza si fa di colpo “ovattata” (muffled), l'udito lo sta abbandonando e Lou (Olivia Cooke), ragazza con cui condivide la band e con la quale vive girovagando dentro a un enorme van, teme che questa circostanza possa farlo ripiombare nell'incubo della tossicodipendenza da eroina.

Per questo decide di portarlo in un’isolata casa di cura per sordi affinché possano aiutarlo ad adattarsi a questa sua nuova condizione. Quella comunità accetta Ruben per come è e, passo dopo passo, anche Ruben sembra trovare un nuovo equilibrio. Ma basterà per reprimere il desiderio di tornare alla vita che aveva un tempo?

Esordio al lungometraggio di finzione per Darius Marder (che nel 2008 diresse il documentario Loot e che stavolta porta sullo schermo un soggetto di Derek Cianfrance, con il quale aveva collaborato allo script di Come un tuono), Sound of Metal (titolo bellissimo, giocato sull’ambivalenza del genere musicale e delle distorsioni ferrose, insopportabili, che segnano la riconquista dell’udito) è un film che segue il disorientamento di una nuova condizione esistenziale e, per farlo, lavora con forza sull’aspetto sensoriale, soffocando i rumori circostanti, i dialoghi, creando in questo modo il giusto livello di empatia fruitiva, spaesando la visione di pari passo allo spaesamento del personaggio protagonista.

 

Riz Ahmed è bravo a restituire, anche fisicamente, trattenendo a stento la rabbia, le frustrazioni e le incognite che irrompono nella quotidianità di Ruben, come allo stesso modo Paul Raci (attore e interprete del linguaggio dei segni, anche musicista e cantante degli Hands of Doom ASL ROCK, band che si esibisce per i non udenti) è superlativo nell’incarnare Joe, l’uomo che gestisce la comunità dove il ragazzo viene accolto: è proprio sul difficile crinale tra incomprensioni e dialogo costante che Marder mantiene in equilibrio il percorso del protagonista, e del film stesso.

Consegnando dapprima alle vibrazioni di uno scivolo percosso a mo’ di djembe e, infine, al suono del silenzio, la poetica di un discorso ben calibrato sul senso di una ricerca che, inevitabilmente, riconduce al punto di partenza, ovvero noi stessi.

Chiusura notevole, affidata inoltre alla bellissima Green di Abraham Marder (fratello del regista), coautore dello script e della colonna sonora del film.