“Eravate un popolo di analfabeti, dopo 80 anni torno e vi ritrovo un popolo di analfabeti”. Premesso che gli anni sono 70, 72 per la precisione (anche i dittatori sbagliano…), la notizia è che Benito Mussolini è tornato tra noi.

Come per magia, cade dal cielo nei pressi della Porta Alchemica di Piazza Vittorio, a Roma, e si ritrova ai giorni nostri, nel pieno di una metropoli multiculturale (“si vede che gli abissini hanno avuto la meglio”, pensa tra sé e sé) e nel pieno di una confusione sociopolitica che, ovviamente, decide di affrontare.

Trova insperato aiuto in un sedicente regista (Frank Matano), appena licenziato dalla tv per cui lavorava, che pensa di realizzare una docufiction provocatoria accompagnando questo strambo personaggio in giro per l’Italia a raccogliere gli umori della gente “normale”.

Dopo Benvenuti al Sud (e al Nord), Luca Miniero tenta nuovamente la carta del remake. Stavolta alza il tiro, prende spunto dal tedesco Lui è tornato di David Wnendt (2015), tratto a sua volta dal bestseller di Timur Vermes, in cui viene raccontato il ritorno di Adolf Hitler nella Germania moderna, e ipotizza lo stesso scenario cambiando dittatore e paese d’appartenenza.

 

E lo fa partendo da un presupposto abbastanza lampante: se la figura di Hitler è stata ricusata con forza non solo a livello globale, ma dalla Germania stessa, si può dire la medesima cosa per Benito Mussolini in Italia? La risposta, ovviamente, è no. Da sempre considerato un “cattivo” minore, alle volte persino giustificato per i suoi “errori”, il duce se n’è mai andato davvero da questo paese?

L’operazione, da questo punto di vista, è al contempo cinica, predittiva e financo “pericolosa”, per quanto lo possa essere un film, naturalmente: quello che interessa agli autori (soggetto e sceneggiatura sono firmati dal regista insieme a Nicola Guaglianone), d’altronde, non è tanto lo straniamento di un personaggio catapultato in un’epoca non sua, quanto osservare le risposte del contesto “ricettivo”.

 

Per farlo, non mutano poi di parecchio la struttura del film originario, mescolando immagini “dal vero” (sorta di candid camera con interlocutori anche ignari dell’operazione stessa) ad una reale drammaturgia che, spiace notarlo, è l’anello debole dell’intera costruzione.

E così, trascinato da un Massimo Popolizio in stato di grazia (che non imita, ma prova a fare “suo” il duce), Sono tornato è un viaggio attraverso il populismo di una nazione che, tra il serio e il faceto, ancora oggi non saprebbe opporsi alle idee totalitarie e dispotiche di un “uomo forte” che, sin dalla sua (nuova) apparizione, non mente sulle sue reali intenzioni: riprendere in mano il potere e governare il paese.

 

“Sì, ma una dittatura libera però, una dittatura non troppo dittatura”, come auspica un fornaio napoletano, tra i tanti che Mussolini incontra lungo il suo cammino. Cammino che, giocoforza, finirà per essere fagocitato dagli show televisivi. Ed è qui che il film compie il suo percorso più profondo, laddove – la storia lo ha dimostrato – si sono decise per anni le sorti di questo paese: un paese senza memoria, disposto al perdono, sempre in cerca di una figura forte capace di intercettare il malessere strisciante di un popolo che ha sempre preferito affidarsi a chi sapeva prenderlo “per la pancia” e mai opporsi, neanche di fronte l’evidenza.

La domanda del film, alla fine, è abbastanza ovvia: mettiamo per ipotesi che Mussolini sia di nuovo tra noi, voi che cosa fareste? La risposta, altrettanto ovvia, è: lo voteremmo. E in previsione delle prossime elezioni (4 marzo), a conti fatti, chissà che non andrà davvero così.

“Anche allora la gente rideva, credevano fosse solo un comico”.