“Sì, chef!” è l'affermazione che i componenti di una brigata di cucina ribattono al proprio superiore in segno di subordinazione e rispetto. Replica comune nel gergo della ristorazione, tale esclamazione, nel film di Louis Julien-Petit, oltre ad esserne il titolo (aggiunta all'originale La brigade ) assume un valore più sfaccettato, divenendo figurazione di riscatto, aspirazione e ricercata completezza personale.

La storia è quella di Cathy (Audrey Lamy) una sous-chef determinata ed appassionata. Lavora nel celeberrimo locale della chef-star Lyna Deletto, volto noto della televisione e dei reality di cucina, ma il suo sogno è quello di aprire un ristorante in cui poter esprimere sé stessa senza alcuna ingerenza e prevaricazione da parte di chi sembra essere più interessato all'apparire che all'importanza che il cibo può attribuirsi.

La strada verso l'obiettivo è impervia e Cathy sarà costretta a dover fare i conti con le problematicità di un mestiere dal quale inizia a percepire solo frustrazione e avvilimento. Dopo l'ennesimo atto di culinaria prepotenza, Cathy lascerà quel posto per cercare di realizzare il suo desiderio più grande. Ma come sempre accade, per concretizzare un'ambizione, bisogna risalire la china e per questo accetterà, con riluttanza, il lavoro da cuoca in quella che scoprirà essere la mensa di un centro di accoglienza per giovani migranti, gestito dal risoluto supervisione Lorenzo (François Cluzet).

Inizialmente per nulla convinta e riluttante, riuscirà in breve tempo a familiarizzare con i ragazzi insegnandogli la passione per la cucina, prendendosi cura di loro e instaurando uno scambio di sincero affetto e vicendevole arricchimento. Do ut des caratterizzato dall'amore per la cucina, con le sue strutturali ritualità, e dal far prendere consapevolezza sulla tematica dell'immigrazione grazie a storie colme di speranza di rifugiati "in attesa di giudizio".

Sì, chef! - La brigade © Stephanie Branchu
Sì, chef! - La brigade © Stephanie Branchu

Sì, chef! - La brigade © Stephanie Branchu

C’è chi vuole diventare il nuovo Ronaldo o chi desidera studiare o cucinare per un restaurant stellato: diversi nella destinazione, uguali nella volontà di riscattarsi nonostante l'opprimente data di scadenza (non superare la maggiore età, pena l'espulsione) percepita come spada di Damocle che li costringe a sentirsi perennemente precari ed estranei in una realtà respingente e crudele. Cognizione che finirà persino per farli apparire in telediffusione. Lo scopo? Far conoscere le dinamiche governative sui rimpatri e per dare volto a poveri ragazzini divenuti adulti, loro malgrado, e considerati sfruttatori” dai più privilegiati.

A tenere tutto legato, il mangiare, nel suo essere convivialità, condivisione e quella madeleine de Proust , evocatrice di ricordi passati e di sapori familiari di cui sentire nostalgia. Come nel lavoro precedente, Le invisibili , il regista si concentra sull'attualità e sull'urgenza dell'argomento tramite una tenera commedia sociale, priva di patetismi, in cui la leggerezza dell'humour d'oltralpe si coniuga alla calibrata eppure evidente militanza e disobbedienza civile. Una denuncia raffinata all'inumana retorica populista infarcita di slogan astiosi ed incapace di provare empatia e vicinanza.