Interrogarsi sulle immagini, fin dalla prima inquadratura. Mettere la macchina da presa a distanza, rendere l’azione sfocata. Che cosa girare? Da dove partire? L’esordiente Emma Seligman apre Shiva Baby con un momento di intimità tra due amanti. E segue la scia di Radu Jude e del suo Bad Luck Banging or Loony Porn, dove nei minuti iniziali si mostrava senza filtri la realizzazione di un video hard. In Shiva Baby invece si vedono figure non ben definite, si sentono i loro gemiti, ma è come se lo spettatore dovesse osservare da lontano.

La provocazione di Seligman non nasce da ciò che accade alla luce dal sole, ma dalle porte chiuse, dall’ipocrisia di facciata. La passione è qualcosa che deve essere nascosta, che non si può raccontare. La struttura è quella del funeral party. Il richiamo non è ad Harold e Maude di Hal Asby, in cui i protagonisti si divertivano ad assistere alle sepolture di sconosciuti. Qui siamo più vicini alla serie Six Feet Under, alle dinamiche famigliari che scaturiscono dalle “celebrazioni” della morte.

Come suggerisce il titolo, il film si svolge durante uno Shiva. Nella religione ebraica, si tratta di sette giorni di lutto in seguito alla scomparsa di un parente stretto. La consuetudine vuole che ci si riunisca a casa del defunto per mangiare qualcosa e ricordarlo. L’intelligenza di Seligman è di riprendere le stanze come se fossero quelle di una prigione, da cui è impossibile uscire. La giovane Danielle vorrebbe andarsene, ma in qualche modo gli altri rinviano sempre la partenza, con sfumature alla Buñuel.

Ma Shiva Baby non punta sul surrealismo. Si presenta come una commedia, poi gioca con i generi e i colori. Le cromature si fanno sempre più opprimenti, in alcuni momenti ai sorrisi trattenuti si mescolano venature horror. L’obiettivo è quello di ragionare sullo scontro generazionale, interrogandosi sul linguaggio. In questo modo la storia diventa trasversale, condanna i moralismi, i tradimenti sottobanco, ed esalta le intemperie dell’adolescenza.

La chiave di lettura è quella della fisicità. Il senso di claustrofobia si somma al continuo scontro/incontro con genitori, zie e cugini. La valvola di sfogo per Danielle è la sessualità, come ci viene suggerito già all’inizio. Nella sua costante ricerca dell’autodeterminazione, flirta con uomini e donne, e si espone anche in rete. Ed è a questo punto che Seligman si domanda che cosa la società possa accettare, e che cosa invece porti a un allontanamento.

Verso la fine gira una sequenza abbastanza curiosa. Quasi tutti i personaggi devono entrare in una macchina, schiacciandosi, contorcendosi. Nonostante i pregi o i difetti, tutti devono essere comunque racchiusi in un limitato contenitore fatto di perbenismi, imposizioni, e soprattutto illusioni. Come dice Woody Allen nella sua autobiografia A proposito di niente: “È proprio da questo trauma che nasce la mia paura di rimanere intrappolato all’interno di un violoncello”. Il maestro scherza, ironizza sulle sedute dallo psicanalista. Ma il “violoncello” di Allen è la casa, l’automobile di Shiva Baby, che con abilità Seligman riadatta, mescolando le carte e scavando molto più a fondo di quello che può sembrare. Un’opera prima convincente, che rivendica la necessità di essere liberi.