Diamo atto a Federico Moccia di averci provato. Con Scusa Ma Ti Voglio Sposare, sequel del fortunato Scusa Ma Ti Chiamo Amore, lo scrittore/regista romano mette da parte il mondo dei liceali per riprendere in mano la storia senz'età di Alex e Niki - Raoul Bova e Michela Quattrociocche, vent'anni di differenza - accompagnandola fino all'altare.
Le scene da un matrimonio secondo Moccia non si fermano qui, ma illuminano altri protagonisti, giovani e meno giovani, comunque alto-borghesi (della Roma bene e dalle tavolate Barilla, i cui barattoli di sugo sono ovviamente in bella evidenza) e dalle molte complicazioni affettive: coppie che scoppiano, adulti poco cresciuti, uomini soli con bebè a carico, gravidanze in arrivo, affari di famiglia e questioni di classe. Tra i tanti lucchetti dell'amore che si aprono per più generazioni ce n'é ancora uno che si chiude in un intermezzo a Parigi, tra la vanità e il sarcasmo dell'autocitazione. Ad ammonirci che il Moccismo non è ancora finito e la fuga dai licei è solo parziale: se è vero infatti che le problematiche toccate da Moccia sfondano qui il solito muro anagrafico, il modo in cui vengono affrontate resta tre metri sopra il cielo e molto sotto la soglia della maturità. E non parliamo di un'idea di cinema che non c'è mai stata nè, probabilmente, ha mai preteso di esserci, ma della superficialità con la quale situazioni e personaggi vengono risolti.
Nell'universo di Moccia non esistono le stagioni della vita ma solo il corrugarsi negli anni di un'intramontabile adolescenza. Ecco perché tra i quarantenni che si dannano per un amore finito e i ragazzini che si struggono per uno assoluto non c'è scarto emotivo. Le frasi Perugina, il romanticismo pacchiano, la vita ridotta a un videoclip (con la musica degli affezionatissimi Zero Assoluto) non sono la forma ma il contenuto dell'esperienza degli uni e degli altri.
In fondo l'intuizione di Moccia - abile a trasformare tutto questo in affabulazione pura, più furba che intelligente, a tratti persino divertente - non è stata quella di avere riempito il vuoto d'immaginario di una generazione, ma di aver dato a quel vuoto una scatola dentro la quale nascondersi. L'esibizionismo, il gregarismo narcisista, l'esteriorizzazione della vita interiore, sono le figure di quel vuoto. E questo non c'è critica che lo possa stroncare.