Quelle del 24 marzo 1976 e del 30 ottobre 1983 sono due date cruciali nella storia dell’Argentina. Rappresentano l’inizio e la fine della dittatura militare. Il Clan di Pablo Trapero è stato uno dei migliori film a descrivere la fine di quel periodo buio, incarnando le inquietudini del post-Videla, gli orrori dell’oppressione. Rosso di Benjamín Naishtat si propone invece come l’altra faccia della medaglia: racconta l’avvicinarsi, inesorabile, del golpe. Ne parlano i giornalisti, anche il comportamento delle persone cambia. È come se, in fondo, tutti sapessero che la democrazia stava per morire.

La perdita di libertà è qualcosa che accomuna il cinema sudamericano. Forse proprio per questo sentimento di fratellanza tra gli interpreti c’è anche Alfredo Castro, attore feticcio della trilogia di Pablo Larraín, al centro di Tony Manero e Post Mortem, e al fianco di Gael García Bernal in No – I giorni dell’arcobaleno. Lui è stato il corpo attoriale scelto da Larraín per descrivere la fine di Allende e la morte del Cile.  Qui Castro è un ispettore di polizia, che si contrappone al protagonista, un avvocato senza scrupoli, pronto a tutto pur di proteggere i propri interessi.

Rosso è un noir anomalo, la radiografia di un Paese al suo crepuscolo. Naishtat si interroga su quale sia la vera identità dell’Argentina. Il classismo, la religione, la giustizia mai dalla parte dei deboli, in un sistema che si inasprisce e si prepara a essere totalitario. Torna alla luce uno dei temi cari al grande schermo di Buenos Aires: indagare il proprio passato per capire il presente.

 

Lo avevamo visto in Il cittadino illustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat nel 2016, quando uno scrittore argentino, stabilitosi in Europa, volava nel paesino dove era nato per ricevere un premio. I due cineasti in quella vicenda si domandavano quale realmente fosse l’anima dello Stato. Prova a rispondere Naishtat, mettendo in scena ferite che non si sono mai rimarginate, soffermandosi sullo spirito meschino di chi esalta l’individualismo e rifiuta la comunità.

Nella sua opera prima aveva analizzato gli effetti della crisi economica più recente, qui segue le regole del film di genere per dipingere il ritratto di una catastrofe annunciata. Dimostra di aver fatto grandi passi avanti rispetto al suo esordio, trova una sua misura, e dà vita a squarci disperati che colpiscono nel profondo, come la sequenza nel deserto.

La condanna è contro una borghesia che abbassa la testa e non si ribella. Il “rosso” del titolo diventa quindi il colore della violenza, del sangue delle tante vittime che verranno. Naishtat inserisce un momento profetico, che è forse un omaggio a Essi vivono di Carpenter. Tutti si mettono gli occhiali e osservano l’eclisse, e a quel punto l’immagine si fa rossa, come se fosse l’unico richiamo alla verità in una vicenda segnata dalla menzogna. Disponibile sulle principali piattaforme e su Cgdigital.it.