Nel titolo originale, l’accento è sullo sguardo: Revoir Paris, rivedere per ritrovare la città perduta e smarrita. In quello italiano, invece, c’è qualcosa che ha a che fare con il contatto, la riappropriazione fisica di uno spazio: Riabbracciare Parigi. Per una volta, è una scelta intelligente, perché la chiave d’accesso al film di Alice Winocour (visto a Cannes nel 2002 alla Quinzaine) è soprattutto emotiva.

All’origine ci sono gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, serie di attacchi terroristici che coinvolsero anche il Bataclan, dove morirono 90 persone. Le vittime totali furono 130, a cui si aggiunsero 413 feriti. Il fratello di Winocour, Jérémie (a cui il film è dedicato), è scampato alla strage nella sala concerti: a partire da quel ricordo traumatico, la regista è entrata in contatto con altri sopravvissuti e con le famiglie delle vittime, per ricostruire non tanto gli attentati in sé (vediamo immagini rapide ed emblematiche, quasi fossero memorie strappate dal flusso, epicentri del dolore, frammenti incastonati nelle intercapedini tra il voluto e il subito) quanto le conseguenze sui corpi e le ferite nelle anime.

Delegando una ricerca che è personale e collettiva a Mia, una traduttrice dal russo sopravvissuta all’attacco in un bistrot e talmente sotto shock da non essere più capace di ricordare gli eventi di quella notte. È un film che si muove tra i frantumi, che trova in Virginie Efira – non a caso premiata con il César per la miglior attrice – l’interprete perfetta per dare voce al silenzio di chi ha perso le parole, penetrare nel meccanismo inconscio della rimozione, restituire le tappe di un percorso di riconquista di sé che significa anche fare i conti con i fantasmi.

Riabbracciare Parigi
Riabbracciare Parigi

Riabbracciare Parigi

Winocour dice di essersi ispirata a Cleo dalle 5 alle 7, con la protagonista travolta dal marasma della città, ma la sua Mia è anche desiderosa di capirla, quella città fotografata come un limbo tra il crepuscolo e le tenebre, un perenne interno notte in cui nuotare in apnea per salvare se stessa e il senso di comunità.

È un personaggio-mondo, quello di Efira, non solo impegnato nella ricerca dell’uomo che l’ha salvata, ma che si esalta tanto nei non-detti di una relazione messa alla prova dal senso di colpa (il fidanzato medico è Grégoire Colin) quanto nel corpo a corpo emotivo e sensoriale con Benoît Magimel, al solito maiuscolo, che funziona da specchio, un maschio fragile ammantato di virilità animalesca chiamato a rivelare il passato cancellato e immaginare il futuro sperato.

Ha una bella grana, Riabbracciare Parigi, una storia di passeggeri notturni che proprio nel suo rincorrere le luci trova un pur facile simbolismo (fotografia di Stéphane Fontaine), certo un po’ ridondante nella seconda parte che sembra confondere l’avvitarsi con l’aggrapparsi e comunque efficace nel tentativo di rielaborare il trauma attraverso i gesti concreti senza cedere alla trappola dell’intellettualizzazione. E con una parte finale commovente che colpisce per l’equilibrio tra evocazione ed empatia.