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Revival
Rich e Grant, strana coppia di rapinatori in fuga, nascosto il malloppo per i boschi, si imbattono nel dottor Martin, anziano e vedovo, che li scorta nel suo podere di campagna. Qui vengono curati (Rich ha una mano in cancrena), accuditi, nutriti, drogati e allettati. Si risvegliano, infatti, cavie di un esperimento estremo: il dottore spinge i suoi pazienti alla morte e ritorno, tramite – secondo le note di regia - "un'alchimia che, grazie a un siero, permette ai personaggi di vedere oltre la vita”. Gli esperimenti mietono vittime, ma non si arrestano fino ad un finale aperto che coinvolge Rich e ribalta completamente i piani cognitivi della realtà.
Cast internazionale (convince soprattutto il veterano in camice Michel Parè, ma non sfigurano neanche lo spaurito Louis Mandylor e il diffidente Jonv Joseph) per il thriller filosofico di Dario Germani, che da qualche anno si cimenta in pianta stabile nell’horror indipendente, dopo un lungo apprendistato come direttore della fotografia. Qui, tuttavia, le derive orrorifiche sono più trattenute, il realismo non evapora mai, anche quando l’atmosfera si fa rarefatta e surreale nei continui andirivieni ontologici, il passo narrativo rimane (forse troppo, ma volutamente e sempre) compassato, la tensione, smorzata nei primi due, lievita nel terzo atto, la regia è limpidamente narrativa ma orfana di guizzi visivi memorabili, la confezione musicale pregevole (la colonna sonora è firmata, con merito, dal cinematograficamente prolifico Sergio Cammariere).
Nel continuo e (infine) ambiguo salto tra piani ontologici, nel volteggio di generi (l’inizio da classico gangster movie con tanto di calco di Pulp Fiction, che lascia poi il passo al classico medical thriller in salsa body horror, che si lega a doppio filo con il survival movie metafisico), nel passo più dialogico che adrenalico, Revival va a scavalcare non tanto, o almeno non solo, l’eterna linea di confine tra la vita e la morte, tra il qui e l’altrove, quanto le necessità mancate e i bisogni affettivi che gli umani trasferiscono nel regno dei morti. Fin troppo ovvio, infatti, annotare che l’aldilà è per i personaggi del film (tutti, medico incluso) nient’altro che epifania degli amori avuti in vita.
Pregevolezza? Scontatezza? Banalità? Ristrettezza immaginativa dalla sceneggiatura iterativa di Justin Di Sandro? Agli spettatori l’ardua sentenza.
A Germani, di fatto, interessano soprattutto due corollari: in primis punire l’anti-accademismo individualista, che ha il volto e il rimorso del mad scientist rimbalzato dal mondo della ricerca ufficiale per le sue teorie quantomeno ardite, e ora in cerca di nuova legittimazione presso chi lo ha rifiutato. In secundiis, come detto, la configurazione di un aldilà, qualunque esso sia e qualsiasi forma abbia, come mera espressione di chi abbiamo amato in vita, come ricongiunzione d’affetti, come estroflessione dell’amore amato e perduto. Dunque, come semplice estensione indistruttibile della memoria personale.
Ammettiamolo non è niente di trascendentale, e il cinema (il teatro, la letteratura...) abbonda di simili aneliti di rischiarare e spiegare l’Altrove, ma è una precisa visione del mondo, che tradisce una poetica, per quanto derivativa, limpida e sincera. E, per questo, in fondo, apprezzabile.