Nasce sotto il segno di Pino Daniele, le cui canzoni non si sentono mai ma attraversano i tre episodi che compongono Quanno chiove, l’opera prima di Mino Capuano, presentata in anteprima a Bimbi Belli, la rassegna promossa da Nanni Moretti e dedicata agli esordienti.

E non si tratta di un facile ammiccamento al repertorio di un cantautore scomparso troppo presto e rimasto dint’e vene di una terra e dei suoi abitanti: è una questione più profonda, che ha a che fare con la vocazione malinconica di un popolo caldo e spigoloso, condannato alla nostalgia dell’armonia perduta, all’attesa che la pioggia arrivi e alla consapevolezza che prima o poi il sole, maledetto, tornerà.

Tre storie dentro la saudade napoletana, che si chiamano come tre canzoni, che restano nell’aria di vetro inquadrando l’orizzonte degli eventi. In A’mbriana c’è un ragazzo che si sta per trasferire a Milano dalla madre, dopo una vita trascorsa nella casa al mare del padre: una cerimonia degli addii sulla frantumazione di un presente che sfugge, con una tristezza che nessuno ha il coraggio di ammettere.

C’è una casa da lasciare anche in Appocundria, messa in vendita da tre fratelli che non si (ri)conoscono più: è un altro racconto sulle cose che finiscono, su quelle che riaffiorano da un passato scontornato dalla felicità e su quelle da riabbracciare per poter essere ancora chi si è stati. Quelle stesse cose che forse stanno ritrovando Sombrero e Margherita, i protagonisti di Alleria, che si sono amati, persi, mai dimenticati e ora ritrovati: che cos’è l’amore se non una questione di tempistica, di cose non dette e previsti rimpianti?

Con lo schema de I vinti di Antonioni ma senza l’impianto sociale, le suggestioni del cinema umanista di Ozu rivisto da Kore’eda e Hamaguchi che nel minimalismo trova la grandezza del mondo, Quanno chiove è un’antologia mai pretestuosa poiché strutturata come un percorso, che si riverbera nel fuoricampo e nel far vedere ciò che resta dietro l’evidenza.

Si parte dalla la bella ‘mbriana, lo spirito benefico che protegge la casa e i suoi abitanti; si passa all’appocundria, cioè quell’indefinibile accettare le sorti della vita con fatalismo, scetticismo, distacco; e si arriva all’alleria, la gioia di chi ha sofferto e si permette il lusso sfacciato di vivere male ma con leggerezza.

Sei anni di lavoro, produzione super indipendente del collettivo THREEAB, nato come un cortometraggio di diploma autofinanziato, Quanno chiove rivela lo sguardo forte di un regista giovanissimo, che sa raccontare il presente attraverso le immagini sgranate e commoventi degli home movies (veri: “Un modo per consegnare al passato il presente effimero del fare cinema stesso” dice il regista), intrecciando un quotidiano dimesso, monotono, apatico, uggioso con l’epica sommersa del cinema familiare.

Mentre i cieli pieni di nubi gravide si specchiano nei vetri delle finestre e il mare costeggia rive che sembrano ricordare antichi fasti, trionfa uno spaesamento che è sentimento di un tempo fuori dal tempo. È incredibile, considerati anche i mezzi limitati, la precisione nel ricostruire gli spazi e chi li abita, a partire dal primo episodio: i tavoli di plastica, la gente che fuma, i pomodori sul tavolo, la carne alla brace, il vino nei bicchieri di plastica, i mandarini sbucciati, un aspirante cantante che intona La pansé di Carosone e il classico tematico Come pioveva. E la voce di Ennio Fantastichini, che arriva dall'altro lato, a dialogare con il figlio, Lorenzo, che per diventare grande sa che deve andare via (“Ti si fatt gruoss, ti devi responsabilizzare”).

Così come nel secondo frammento, che sembra dialogare con romanzi per immagini come La casa di Paco Roca e Qui di Richard McGuire, illuminato dalle candele per un’improvvisa ma provvidenziale mancanza di corrente, imbevuto di un assenzio d’annata, affumicato dall’odore delle canne, chiuso sulla sigla delle Tartarughe Ninja rifatta con voce e chitarra: la ricostruzione procede attraverso elementi sensoriali e il riconoscimento ha bisogno di un ricordo indispensabile per immaginare la possibilità del futuro, stavolta rinvenuto nei filmati d’infanzia dello stesso regista.

Questa persistenza di un ipotetico archivio privato, tutto interno alla narrazione, si staglia anche nel terzo, annunciato da facce che costituiscono la cartografia di una comunità e pervaso da una dolcezza che via via sfocia nel disincanto rancoroso, fino a un memorabile finale durante una sagra (magnifici i protagonisti Ciro Scalera ed Elisabetta De Vito, che si rivedono giovani nei loro stessi filmini).

Capuano trova unicità espressiva nella molteplicità narrativa, sottrae senza togliere, squarcia e lascia gli strumenti per ricucire: il suo è un esordio spiazzante perché schietto, struggente, umanissimo. Ci vuole uno sguardo per raccontare il tempo che passa, la sua superiorità sulle nostre azioni, la sua capacità di seppellire qualcosa che mai più potrà essere più quel che fu ma sarà qualcosa di nuovo, diverso, forse migliore. E Capuano, quello sguardo, ce l’ha. Trovategli una distribuzione, per favore.