Metti un’inglese (per due anni) a Napoli durante la pandemia.

Trudie Styler (per chi ha memoria lunga, prima di sposare Sting fu Edith in La sposa americana di Mario Soldati), attrice, produttrice, regista, attivista, torna dietro la macchina da presa dopo Freak Show, per almanaccare slanci e macerie dell’ultima “capitale del mondo antico”.

Sui titoli di testa, difatti, Clementino con un bislacco pezzo rap ne sintetizza la storia millenaria. Poi è tutto un vagare, svicolare tra vicoli e rioni, incontrare, incantarsi continuamente in ballo tra meta-documentario, folklore e realismo sociale.

Styler (anche sceneggiatrice) lavora in diacronia (fulcro d’indagine è la Napoli fascista prima, occupata e bombardata poi), in larghezza (dal rione Sanità, simbolo e sintesi della città, a Posillipo, dal Vomero a San Giovanni a Teduccio), e in altezza: il mare (di Raffaele La Capria) e il Vesuvio (di Goethe e Cecilio Stazio).

Nel mezzo, un affollamento di volti, storie, drammi, lutti: violenze domestiche, delitti camorristici, madri sopravvissute alle figlie. La regista entra e spaccanapoli, cerca le ferite, le fratture, il fatalismo e l’arte di arrangiarsi. Eppure, tra le crepe e i proiettili, tra il barocco e il roccocò sboccia la solita, encomiabile vitalità: Don Antonio Loffredo, deus ex machina della riqualificazione (tra orchestre e boxe in sagrestia) del Rione Sanità, già ispiratore di Nostalgia; il centro femminile anti-violenza di quartiere; drammaturghi figli di stragisti; Jorit che dipinge palazzoni popolari; Saviano sotto scorta; Di Leva – che nel film di Martone ha incarnato proprio il prete napoletano - e il suo centro teatrale per ragazzi (NEST) sorto da una scuola abbandonata.

Eppure, il fraseggio del doc è ondivago, caotico, onnivoro. Si appesantisce presto di schematismi e pregiudizi di una straniera che si intrufola in un’altra Nazione nella Nazione senza comprenderla né perdonandola fino in fondo. La patina rimane decorativa, financo promozionale; l’intonazione, pur nella genuinità di intenzioni, in fondo in fondo, compassionevole, tollerante. Tra Pulcinella e le Catacombe, questo doc neomelodico diventa guida turistica solo per non italiani: Napoli come ecosistema autonomo, Napoli Maradona e mandolini, lo scudetto del riscatto, e altre mezze verità (sempre che lo siano) trite e ritrite.

Resta lo stupore errabondo, le microstorie nella macro-storia, l’invito alla scoperta estatica, il dialogo aperto con la Morte. Styler annusa, ammira certo, perfino intuisce l’anima duale della città: aristocratica e disgraziata, angioina e popolana, criminale e liberale, rivoluzionaria e fatalista, portuale e arroccata, vesuviana e marina, sacrale e scaramantica. Ma non ne coglie l’essenza. 

Non manca empatia, ma immedesimazione, pienezza, sintesi a questo doc dalla coproduzione anglo-italiana (Big Sur, Mad Entertainment con Rai Cinema, Luce Cinecittà).

Insomma, è giusto che porti (se ce ne fosse ancora bisogno) torrenti di vacanzieri stranieri sotto il Vesuvio; è perfino giusto che seduca e incanti loro, ma non noi.