Si attendeva questo Detective Pikachu, tanto e da molto, con la speranza che redimesse finalmente la controparte cinematografica dell’universo dei Pokémon, nati come videogioco su Game Boy ormai 25 anni fa. Una redenzione che, negli ultimi tempi, anche altri fenomeni multimediali hanno tentato, sul grande schermo, con risultati quantomeno traballanti (Dragon Ball Super: Broly).

La pellicola di Rob Letterman, sotto un certo punto di vista, è persino più coraggiosa, perché gioca la partita fuori casa, ovvero con un film in live action ibridato da Pokémon realizzati in computer grafica. Il risultato è meno straniante di quel che si potrebbe pensare, avvicinandosi molto più ai modelli positivi (Chi ha incastrato Roger Rabbit?) che a quelli negativi (Super Mario Bros.) della categoria, cui si aggiungerà presto, nel bene o nel male, il prossimo Sonic – The Hedgegog.

Bisogna rendere atto a Detective Pikachu che l’uso di tecnologia e effetti speciali è pregevole, riuscendo nel compito, già arduo di partenza, di mantenere intatta la sospensione dell’incredulità.

Peccato che, benché l’occhio voglia sempre la sua parte, non si tratta dell’unica parte in gioco. Il film, infatti, un po’ rifacendosi quanto possibile all’omonimo videogame da cui prende le mosse, un po’ delineando una sua identità narrativa indipendente, manca tutti gli altri bersagli.

La trama è debole, estremamente specifica (oltre il limite del ripetitivo) in alcuni punti quanto convenientemente ambigua in altri, i colpi di scena sono tutti prevedibili e, pur prevedendo un target di pubblico molto pronunciato verso il basso, poco gratificanti.

I due personaggi umani principali, interpretati da Justice Smith e Katryn Newton, non se la cavano male ma il loro spazio viene divorato da un Pikachu efficace ma ingombrante, doppiato in lingua originale da Ryan Reynolds, di cui condivide l’ironia sfrenata e iconoclasta. Purtroppo, che questa funzionasse su Deadpool, comunque un protagonista solitario, non ne giustifica la trasposizione tout court su un personaggio di difficile inquadratura. La combinazione straniante di comico e tenero funzionerebbe pure, se trovasse il giusto spazio e agisse di concerto con il resto del film. Così, invece, risulta alquanto stridente.

Resta a difesa del film la meraviglia visiva di un paio di sequenze brillanti, specie nella prima metà, e qualche trovata che strappa il sorriso. Quasi niente, comunque, che non si sia già visto, gestito meglio, in Zootropolis. Il finale è fiacco, e non basta la tematica della paternità, pazientemente intessuta, a riscattare a un epilogo audace. Dispiace, perché con franchise di tali dimensioni, grandi e inamovibili come uno Snorlax, osare è un’iniziativa pregevole. Ma la lezione, severa, va appresa: per sollevare pesi simili ci vuole la giusta leva.