Buone intenzioni ma qualche peccato di troppo nel ritratto degli ultimi rintocchi di vita del “Charlie Chaplin pugliese”. La cornice c'è: quella degli anni '70. La tavolozza ed i colori anche: quelli del Sud d'Italia. L'intreccio non manca. Eppure si fatica a trovare l'armonia e l'equilibrio.
La bombetta, il frac, il bastone di bambù ed il garofano rosso all'occhiello: Michele Genovese, in arte Piripicchio Barletta, è un artista di strada, che si diverte a strizzare l'occhio allo Charlot più goffo ed impacciato. Si esibisce in filastrocche e numeri di mimo, girando l'Italia in lungo e in largo, di piazza in piazza, riscuotendo l'ammirazione di molti spettatori. Gli stessi che gli hanno affibbiato quel soprannome - di cui va fiero - che lo paragona goliardicamente al piffero utilizzato agli inizi della sua carriera. Tra di loro, il fan più affezionato è Vincenzo Amoroso detto Vincent, un diciottenne di Bitonto, figlio dell'illustre medico del paese con cui non va d'accordo. Innamorato del suo idolo fin da bambino, il ragazzo dall'indole ribelle ed idealista sarà pronto a seguirlo, all'insaputa di tutti - perfino della fidanzatina che lo cerca disperatamente – lasciandosi alle spalle una sopravvivenza già programmata, in cambio di un'esistenza di arte e di avventura.
Forse, sono state le premesse a non rendere totalmente giustizia all'opera seconda di Vito Giuss Potenza. Sarebbe stato difficile, infatti, realizzare un buon film, immerso nel periodo del rapimento Moro e girato quasi sempre in esterni, con un basso, bassissimo budget. Non stupisce, quindi, che il tentativo tradisca alcune incongruenze. L'atmosfera degli anni di piombo si perde nei dettagli scenografici e nella sterile rappresentazione del fermento politico e culturale dell'epoca. Al posto di motivazioni che scuotano i personaggi nel profondo, dominano i soliti dissidi generazionali tra un ragazzo dalle aspirazioni artistiche - con il vespino rosso ed il poster di Che Guevara appeso in camera - ed un padre padrone, di fede fascista, che vorrebbe per lui un futuro promettente nella medicina, all'ombra dei suoi passi. Ma se da un lato il rapporto padre figlio si perde in un bicchier d'acqua, dall'altro contribuisce a dare risalto al ben più efficace binomio maestro-allievo, nella cui cornice si inseriscono i momenti più divertenti ed interessanti del film. Accanto ad una regia marcatamente televisiva non si può fare a meno di notare una recitazione un po' teatrale, ad eccezione, però, dell'interpretazione di Piero Campanale (Vincent) e di Nicola Pignataro, che regala anima e corpo all'ultimo vero artista dell'avanspettacolo povero.
La sceneggiatura, inizialmente convincente, si perde strada facendo nell'assenza di un vero e proprio climax. Ma si riprende nel finale, mettendo a segno una chiusura poetica e malinconica quanto basta. Sul letto di morte il protagonista immagina realizzato il suo più grande sogno: sul palcoscenico del teatro Piccinni di Bari, con gli applausi scroscianti a fare da colonna sonora e con Charlie Chaplin e Totò al fianco, Piripicchio si concede quell'ultimo gesto con cui il pubblico lo ricorderà in eterno. E poi, cala il sipario: una vita per l'arte, in cambio dell'illusione di un solo istante di gloria.