Un fumettista, Petrov ((Semyon Serzin), e la sua famiglia, la moglie bibliotecaria Petrova (Čulpan Nailevna Chamatova) e il figlio, nella Russia post-sovietica. Colpito da un’influenza debilitante, il giovane uomo viene condotto dal suo amico Igor in una lunga passeggiata, che si rivelerà erranza tra fantasia e realtà, incubo e paranoia, istinto e sbornia, furore e omicidio.

È Petrov’s Flu di Kirill Serebrennikov, che concorre alla Palma d’Oro di Cannes 74. Il regista di Summer (Leto) e Parola di Dio, però, non ci sarà, nemmeno stavolta: è ancora agli arresti domiciliari per l’accusa di frode ai danni del ministero della cultura russo.

Rispetto a Summer (2018), che tornava con stile e ardore alla Leningrado Anni Ottanta di Zoopark e Kino, fa un po’ le stesse cose: tra debiti, simmetrie, derivazioni, underground e maledettismo, coppia e adulterio, intenzione, istanza e oggetto desiderante, in primis libertà, ma di quello non ha le misure, il contenimento, è più errabondo e tremebondo, splendidamente girato ma – vi chiederete – a che pro?

Scorre l’alcool, sale la febbre, si dipana sullo schermo il romanzo La febbre dei Petrov e altri accidenti di Alexey Salnikov, e non mancano sequenze da ricordare: la musica prende campo, gli attori si denudano sotto lo sguardo femminile, la vita familiare scopre gioie dimenticate, eppure il film è solo discreto, lo era già Summer, e Petrov’s Flu lo è meno.

Bianco e nero, animazione, registri, generi e formati si alternano, ma l’ipertesto è meno della somma delle sue parti, l’artificio esibito, il racconto vampirizzante la storia: era un sogno, anzi, un fumetto, di più, una sbornia. E tanto rumore per nulla.