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Per amore di una donna
Una donna, tre uomini, forse meglio, tre padri per un bambino? Sono le geometrie relazionali, necessariamente e virtuosamente variabili, di Per amore di una donna, il nuovo film di Guido Chiesa, già vincitore al Bif&st.
Sullo schermo, un peana mai artato, mai scontato alle sorti magnifiche e progressive, anche laddove si vada a ritroso, della conoscenza, e nella forma più - letteralmente - familiare, della propria storia. E, dunque, le vite degli altri, indagate come libro aperto, lessico, appunto, familiare e sintassi intricata: chi siamo, ovvero da dove, e ancora più, da chi veniamo?
Per amore di una donna, vuole il titolo, e c'è questa donna nel passato, e un'altra in un passato più recente: i '30 e i '70, e poi noi che guardiamo ricambiato, perché il film ci riguarda. Non nell'indicazione geografica tipica, ma nella denominazione d'origine umana, ché Chiesa e la co-sceneggiatrice Nicoletta Micheli prendono dalla Storia per dirsi, chiederci e restituire, volti dell'amore compresi.
Sicché i Settanta con Esther, una 40enne americana inquieta, che la manda mamma: una lettera postuma la invita al viaggio, la esorta a trovare una donna vissuta negli anni ’30 in Palestina – all’epoca sotto mandato britannico – che nasconde un segreto sulla sua vita. Arrivata in Israele prova a raccapezzarsi aiutata da Zayde, un professore dal passato complesso. Chiesa intervalla la ricerca e il ricercato, ovvero gli anni Trenta, cui arriviamo in un villaggio di coloni, laddove il contadino Moshe, vedovo con due bambini, chiama a dargli una mano Yehudit.
La giovane donna avrà un effetto dirimente sulla vita di Moshe, del romantico e stralunato Yakov, nonché del furbo commerciante Globerman: di chi è il figlio che mette al mondo?
Dice Chiesa, "la vicenda degli anni ’30 è tratta dal romanzo The Loves of Judith di Meir Shalev. L’indagine di Esther è invece frutto della nostra invenzione e rappresenta il nostro punto di vista di italiani, lontani dalla cultura e dall’esperienza di quegli ebrei che all’inizio del ‘900 lasciarono l’Europa per sfuggire alle persecuzioni, con il progetto di costruire una nuova società, egualitaria e solidale".
Certo, lo spirito del tempo, l’agenda, la cronaca, ossia quel che Israele sta facendo a Gaza, che è una buona approssimazione dell'Olocausto stesso, interferisce, se non preclude, con la nostra empatia, indisponendoci alla comprensione, se non alla visione, e che fare?
"Non è un film politico, eppure il senso profondo che lo attraversa può assumere un valore altamente politico: anche durante i momenti bui della storia, donne e uomini si innamorano, formano famiglie, comunità, nascono bambini. E allora non c’è più distinzione tra passato e presente, o tra culture e popoli, e possiamo riconoscerci parte di uno stesso destino comune e universale, dove è l’amore che salva”.
Può bastare, non al film, ma al suo calarsi nel qui e ora questa avvertenza umanista? Il discrimine non sta nel cinema, bensì nel mondo, ma se il primo ne è schermo riflesso, ancora, che fare?
Chiesa al geopolitico preferisce l'umano, e nella risoluzione non si ravvisano i sepolcri imbiancati, il qualunquismo o il revisionismo non già del passato ma del presente, e non è risultato di poco conto.
Ana Ularu, che incarna Yehudit, si fa preferirei a Mili Avital, che interpreta Esther, sul versante maschile Ori Pfeffer (Zayde), Alban Ukaj (Moshe), Marc Rissmann (Yaakov) e Serhii Kysil (Globerman) sono tutti all'altezza.
Non tutto esalta, ma aver messo occhi e cuore fuori dal tinello e cucina del cinemino nostro, aver piazzato la camera in una terra e un tema che più minati non si può è francamente coraggioso, e ineludibile merito di Chiesa. Che l'abbia fatto davvero per amore di una donna?